Nicola Abbagnano

Possibilità e libertà

"Documenti e ricerche", Taylor Editore,Torino, 1956, pp. 250
Traduzioni: Mogucnost i Sloboda, trad. di Heda Festini, Nolit, Beograd, 1967; Filosofia de lo Posible ( trad. di J.H. Campos, A. Rossi, P. Duno), Fondo de Cultura Economica, México-Buenos Aires, 1959, pp. 234 (contiene i capitoli I, III, VII, VIII, IX, XII, XIII. XIV, XV di Possibilità e libertà, i capitoli I - IV di Problemi di sociologia e 17 saggi apparsi in Italia tra il 1950 ed il 1954 su varie riviste).

Sul metodo della filosofia

1. L'impegno del filosofo

Più volte mi sono domandato in che consista l'impegno fondamentale di un filosofo: intendo quell'impegno che costituisce il suo punto d'onore, la sua ragion d'essere come filosofo. Può sembrare che la risposta sia facile: quest'impegno è nei confronti della "Verità". Ma prescindendo qui dalla domanda di Pilato che subito si presenterebbe alle labbra e senza indulgere a troppo facili considerazioni scetticheggianti, dirò che la nozione di verità è troppo augusta alta e lontana per poter essere il termine di un impegno lavoro efficace, come quello del ricercatore filosofico; il cui orizzonte è limitato, come l'orizzonte di ogni altro ricercatore, da un complesso di condizioni che agiscono sia come stimoli i sia come impedimenti alla sua attività. L'impegno del filosofo deve trovare il suo termine in questo orizzonte per essere effettivo e obbligante; altrimenti rischia, per la sua natura generica, di non impegnare a nulla giacché nel nome della Verità ogni cosa può essere ammessa o permessa. Sul carattere quotidiano, limitato, ma effettivo ed obbligante dell'impegno filosofico non si potrebbe mai insistere abbastanza. Consentite che io lo faccia con un apologo. Immaginiamo che in un gruppo di gente che viva scambiandosi servizi e beni in natura ci sia un uomo che possegga una gran quantità di oro. Immaginiamo che quest'uomo predichi agli altri che l'oro è la sola ricchezza e che si dichiari perciò il solo ricco, il solo intelligente e saggio e consideri con disprezzo gli altri che si affaticano nei loro poveri scambi. E' chiaro che quest'uomo non solo sarà di fastidio più che di aiuto per gli altri, ma anche sarà destinato a morire di fame, non essendo il suo oro scambiabile con beni o servizi utilizzabili.
Ma supponiamo che invece di predicare che l'oro è la sola ricchezza, quest'uomo si mescoli agli altri, partecipi ai loro lavori e scambi, e faccia vedere come l'uso dell'oro quale moneta possa facilitare e migliorare i rapporti economici della comunità in cui vive. In questo secondo caso egli si sarà impegnato, non già nei confronti di quella che credeva, ed era per lui, la verità, ma nei confronti di qualcosa di più limitato ma di più efficace: un certo metodo di scambio; e si sarà impegnato ad esso con la sua attività quotidiana unendosi con gli altri uomini nel comune lavoro. Questo è l'apologo. Ora io non dico che i filosofi siano stati spesso simili al personaggio fittizio che predica la verità che l'oro è la sola ricchezza a una comunità che vive di scambi in natura. Dico solo che questa è stata ed è una tentazione dei filosofo, tentazione passata e presente, di cui è meglio liberarsi, per prendere invece la via modesta ma più efficace di chi, ben sapendo di vivere con gli altri e fra gli altri, si limita a proporre qualche nuova tecnica di vivere, cioè qualche nuovo metodo di pensare, di agire e di sentire (comunque s'intendano queste parole): nuovo non in senso assoluto ma rispetto alla situazione che si mira a correggere. Considerazioni di questa specie convincono a portare l'attenzione sulle tecniche, cioè sui metodi, della ricerca, più che sulla "verità". Una proposta di verità è da prendere o da lasciare: un metodo, per essere giudicato, deve essere messo a prova attivamente da ciascuno e può essere corretto o migliorato. E' accaduto qualche volta, nel corso della storia della filosofia, che si imponesse ad un filosofo di abiurare alla sua "verità" in nome di un'altra "verità". E' accaduto anche che il filosofo si rifiutasse e ne subisse le conseguenze Ma se invece di imporre al filosofo un'altra "verità" gli si mostra che il metodo da lui adoperato non conduce a quel risultato che egli crede verità, o che il metodo stesso dev'essere in qualche modo rettificato, il filosofo non ha, in linea di principio, nessuna obiezione ad abbandonare la sua "verità". Ed è quanto, in realtà, qualsiasi filosofo ha fatto più o meno nel corso della sua vita, mutando o correggendo le sue concezioni, sotto la spinta di critiche proprie o altrui, o di circostanze o di fatti di qualsiasi natura. Questa osservazione mette in evidenza la natura dell'impegno filosofico e in generale dell' impegno in una qualsiasi ricerca razionale. La tragedia di Galilei non ci sarebbe stata se Galilei avesse potuto convincersi, in base ai metodi che riteneva validi per la ricerca, che la teoria copernicana fosse falsa. L' "impegno verso la verità" è in realtà, in ogni caso, l'impegno in un metodo specifico di ricerca.

2. Il principio metodologico generale

Le considerazioni precedenti e la conclusione cui esse conducono, possono essere riespresse in altra forma, dicendo che la proposizione di qualcosa come "verità" implica in ogni caso la proposizione, esplicita o implicita, di un metodo in virtù de quale la "verità" proposta possa essere attestata e controllata. Ritengo che questa regola sia della massima importanza tanto per la scienza quanto per la filosofia in generale per ogni tipo, forma o specie di ricerca razionale. Non intendo qui assumere che ci sia o possa esserci un unico metodo per tutte le scienze e discipline né assumo la tesi contraria della diversità irreducibile dei metodi. Lasciamo per un momento in sospeso questo problema. Non posso neppure fermarmi a discutere la regola proposta nei riguardi della scienza, rispetto alla quale, tuttavia, credo si possa mostrare agevolmente che essa è stata fatta valere, da Galilei ad oggi, con sempre maggior rigore. Intendo semplicemente affermare che, se si parla di "verità" in un senso diverso dall'imposizione autoritaria e dalla credenza personale gratuita, si assume costantemente che c'è un metodo per il quale chiunque può, in qualche modo e misura, attestare o controllare la verità stessa. Un metodo non è necessariamente una serie complessa di operazioni e di calcoli guidati da regole esplicite. E' però sempre una operazione, anche se abbastanza semplice o addirittura affidata ad una struttura organica ed è un'operazione ripetibile: se per es. dico: "Il lume è sul tavolo" asserendo questo enunciato come verità, assumo che chiunque sia in possesso di un organo visivo normale può attestare la proposizione in questione, e può eventualmente controllarla mediante l'uso dei tatto. Si può naturalmente ammettere che esistano "verità evidenti" cioè verità che si giudicano tali a colpo d'occhio o che risultino tali dalla semplice disposizione delle parole. Ma in questo caso si è fatto semplicemente ricorso ad un metodo particolare, che è quello dell'evidenza, il quale, come sappiamo da Cartesio in poi, non è certo il più facile ad usarsi, ed implica numerosi problemi di logica. Non possiamo neppure ignorare che molte filosofie nazionalistiche, antiche e recenti si avvolgono della deduzione per conferire valore loro affermazioni; ma la deduzione è in ogni caso un procedimento metodico nel quale le singole proposizioni acquistano valore di verità solo in virtù dell'ordine in cui sono derivate l'una dall'altra. Che il metodo sia ovvio, facile e legato al dinamismo della percezione (ma di questo dinamismo la psicologia moderna dimostra tutta la complessità di struttura), o che esso sia difficile ad adoperarsi e composto di operazioni che possono essere eseguite solo da chi abbia competenza e addestramento speciali, - rimane costante la regola che l'asserzione di una verità, in qualsiasi campo e a qualsiasi livello della ricerca razionale, implica l'uso di un metodo adeguato, cioè di una tecnica di attestazione controllo.
Le parole "tecnica di attestazione e di controllo" richiedono qualche chiarimento. Esse ovviamente non si riferiscono soltanto a tecniche che consentono prove irrefutabili o dimostrazioni apodittiche, sebbene comprendano anche tali tecniche come casi-limite o privilegiati che si possono verificare in campi determinati della ricerca razionale. Esse non si riferiscono neppure esclusivamente alla verifica empirica così com'è intesa dalla tradizione empiristica (quale ricorso ai dati sensibili che emergono dall'esperienza) o dalla scienza. Esse devono essere assunte in un significato più esteso e comprensivo come includenti il ricorso a ogni tipo o specie di indizio, indicazione, segno, testimonianza, prova, dimostrazione, con la sola restrizione che tale ricorso sia, in circostanze adatte, ripetibile, cioè controllabile. Il significato ristretto e rigoroso delle tecniche di verificazione, di accertamento e di controllo, quali si trovano nell'ambito di discipline specifiche, giunte ad un alto grado di maturazione scientifica, non è escluso dall'espressione che ho adoperata, ma comprende ovviamente solo piccole zone dell'esteso ambito coperto da essa; giacché la regola proposta è presupposta valida da ogni enunciato, anche il più banale, che pretenda asserire una verità qualsiasi. Gli innumerevoli enunciati di cui è fatto il nostro discorso comune intorno a situazioni o faccende di qualsiasi genere, importanti, o meno importanti o insignificanti, sono sempre sorretti dal ricorso possibile a tecniche di attestazione, semplici o primitive quanto si voglia e tuttavia, grosso modo adeguate. Spesso tali tecniche sono semplici e primitive solo a prima vista, mentre un'analisi accurata può scoprire in esse una ricca complessità di operazioni, rese facili e spedite soltanto dalle strutture biologiche, psicologiche e sociologiche dominanti. "Dov'è Pietro?" "E' nella stanza accanto. L'ho visto un momento fa". Il che significa: chiunque avrebbe potuto vederlo nella stanza accanto un momento fa, - cioè il ricorso ad una tecnica di testimonianza. Ma tutti sappiamo, è specialmente i giuristi e gli storici sanno, a quali difficili problemi può dar origine l'uso di questa tecnica. Comunque, la regola proposta si presenta della massima generalità perché collegata con ogni asserzione di cui si voglia umanamente dar conto. Ci sono indubbiamente asserzioni di cui non si può o non si vuole dar conto umanamente; ma queste cadono fuori dei dominio della filosofia e in generale, della ricerca razionale. Ed è pur vero che quando si vogliono in qualche modo giustificare e difendere tali asserzioni o esporne i titoli o i diritti di validità, non si fa che ricadere sotto la regola esposta e far ricorso a una o all'altra delle tecniche di attestazione e di controllo, che essa genericamente designa.

3. Diversità e connessioni dei metodi

Per la sua generalità la regola esposta può essere chiamata un principio e, se non ci sono obiezioni, la chiamerò principio metodologico generale. Tale principio non consente, almeno a prima vista, alcuna discriminazione tra filosofia e filosofia. Data la forma in cui l'ho espresso, e l'illustrazione che gli ho data, si può mostrare abbastanza facilmente che qualsiasi filosofia, (perciò escludendo le escogitazioni stravaganti dei dilettanti) soddisfa, in qualche modo e misura, al principio stesso. Indubbiamente le filosofie sono spesso nel più completo disaccordo circa la tecnica metodica adatta a dare agli enunciati filosofici la loro validità. In questo, le filosofie si differenziano dalle discipline scientifiche, in ciascuna delle quali, invece, il disaccordo su questo punto è ridotto al minimo. Ma questo disaccordo non esclude che, ognuna a suo modo, esse rispondano all'esigenza racchiusa nel principio metodologico. Questo principio pertanto, consente la critica negativa di una filosofia con l'uso di una tecnica di attestazione e di controllo che essa non ha implicitamente o esplicitamente ammessa, o che ha addirittura negato. Non si può rimproverare a Hegel di non fondare sue asserzioni sulla tecnica di attestazione e di controllo adoperata da Locke; o reciprocamente. Si potrebbe far questo se si potesse stabilire, una volta per tutte, l'unità di metodo della filosofia; ma è chiaro che ogni tentativo del genere (e la storia della filosofia è ricca di tali tentativi) non fa che moltiplicare i metodi stessi. Ciò accade perché la stessa nozione di "unità di metodo" è una filosofia, anzi una metafisica. Che ogni asserzione, a qualsiasi campo appartenga debba far riferimento a qualche metodo opportuno di attestazione e di controllo, - è una esigenza ragionevole cui, in linea di fatto, non si sottrae nessuna filosofia. Ma che tutte le asserzioni appartenenti a tutti i campi possibili e quindi anche a tutte le filosofie possano e debbano far ricorso ad un unico metodo, - è un'esigenza completamente diversa che non può trovare a sua volta giustificazione metodologica e perciò può essere soltanto il postulato di una particolare filosofia. La differente portata logica delle parole che ho sottolineato nei due precedenti contesti mi dispensa da ogni ulteriore illustrazione di questo punto.
Il rigetto della nozione di "unità di metodo" nel dominio della filosofia, non implica tuttavia il riconoscimento automatico della pluralità, eterogeneità e inconfrontabilità dei metodi adoperati e proposti da varie filosofie. Questa tesi infatti, essendo totalitaria come quella simmetrica e opposta, si prospetta, esattamente come quella, non suscettibile di una giustificazione adeguata e suscettibile solo di essere postulata da una filosofia particolare. Fortunatamente, in occasione di analoghe circostanze, i logici hanno elaborato una nozione estremamente feconda che consente di prescindere completamente dalle nozioni di unità totale e pluralità radicale. Tale nozione è quella di "famiglia di concetti". I membri di una stessa famiglia non sono contrassegnati da un unico tratto comune ma da tratti o caratteri molteplici, ognuno dei quali è partecipato solo da pochi membri ma il complesso dei quali costituisce un insieme di rapporti molteplici che contrassegnano, in qualche modo, il gruppo familiare. Così per es. non tutti avranno lo stesso naso o lo stesso colore di capelli o di occhi, lo stesso modo di camminare, di muoversi, ecc., ma queste e le altre somiglianze, sempre riscontrabili nel gruppo, faranno sì che esso sia appunto riconoscibile come un gruppo familiare. Questa nozione è feconda, perché anche se fosse possibile riscontrare fra tutti i membri di una famiglia la stessa relazione, per es. il colore degli occhi o dei capelli, questa relazione non dovrebbe essere ipostatizzata da sola a definire il gruppo familiare perché non escluderebbe le altre che dovrebbero essere tuttavia ricercate e poste in luce. I numeri, per es., sono oggi considerati come una famiglia di concetti e come famiglie di concetti possono anche essere intesi i termini "aritmetica", "geometria", "calcolo", ecc. Analogamente, potremo parlare, nel campo della filosofia, e rispetto al problema che qui ci interessa, di "famiglie di metodi" e potremo ricercare, nell'interno di ciascuna famiglia, e anche tra famiglie diverse, relazioni varie di concordanza e discordanza, di dipendenza o di interdipendenza polemica, ecc. ecc., mai presumendo di aver esaurito, con l'accertamento di una sola caratteristica, la somiglianza familiare dei metodi considerati, ma sempre rimanendo impegnati nella ricerca di rapporti possibili, in ogni direzione e ad ogni livello.

4. La rettificabilità dei metodi come criterio

Si è detto che il principio metodologico generale non consente, almeno a prima vista, alcuna discriminazione tra filosofia e filosofia. Pur mantenendo valida quest'asserzione nei limiti stabiliti nel precedente paragrafo, possiamo ora riconsiderarla per vedere se quel principio contenga almeno qualche indicazione adatta a sottolineare l'importanza di qualche particolare tecnica metodica. E' chiaro che, se così fosse, questa tecnica si raccomanderebbe in modo speciale alla nostra attenzione e che saremmo autorizzati attenderci dal suo uso risultati meno discutibili e più vicini all'oggettività. Ora io credo che qualche indicazione di questo genere si può ricavare dal principio in questione, se si parte dalla presunzione, fortemente appoggiata dai fatti, che nessun metodo può dirsi perfetto e immodificabile (perfetto perché immodificabile, o immodificabile perché perfetto) e che uno dei risultati dell'uso di un metodo dev'essere quello di rendere il metodo stesso più souple e nello stesso tempo più preciso, più estensibile nella sua applicazione e più efficace come strumento di controllo dei risultati che consente di conseguire. Più genericamente, potremo dire che l'impegno verso un dato metodo di ricerca è, anche, l'impegno ad apportare a questo metodo le modificazioni che eventualmente l'uso di esso esige; e questi due impegni sono, in realtà, un unico impegno giacché l'impegno in un metodo non significa altro che l'uso effettivo di esso e l'uso effettivo può esigere, ad ogni momento, una qualche modifica del metodo usato. Se un metodo incontra, nel campo di ricerche in cui viene adoperato, difficoltà dovute a elementi, fatti o condizioni insorgenti in questo campo, l'uso di esso non può essere continuato e perciò l'impegno di adoperarlo diventa nullo, se il metodo stesso non viene opportunamente modificato in modo da poter far fronte alle difficoltà emergenti. Può darsi, bensì, che il filosofo o i filosofi impegnati all'uso di questo metodo preferiscano, anziché modificarlo opportunamente, ignorare le difficoltà che esso incontra e quindi trascurare gli elementi, i fatti o le condizioni, dai quali le difficoltà e emergono. Ma questa scappatoia, anche se abbastanza frequente non si può considerare come un'alternativa ragionevole e difficilmente può essere proposta come regola in sede di metodologia filosofica. Tutto ciò che si può dire in questa sede è che ci sono filosofie che, per le esigenze del loro sviluppo, effettuano in linea di fatto la modificazione del loro metodo senza proporsi o prospettarsi in anticipo tale modificazione. E ci sono invece filosofie che ammettono, in linea di diritto, la modificabilità dei loro metodi e quindi includono in essi, e cercano di garantire, la possibilità dell'autocorrezione di essi. Per addurre qualche esempio di chiaro significato, dirò che la filosofia di Hegel è del primo tipo: per quanto Hegel abbia modificato il suo metodo dalla Fenomenologia dello spirito alla Enciclopedia e nella stessa Enciclopedia nel passare dalle prime alle ultime categorie della logica e dalla logica alla filosofia della natura e alla filosofia dello spirito, la possibilità della correzione non fa parte del metodo stesso quale Hegel lo intese e descrisse. Dall'altro lato, le filosofie cosiddette empiristiche si possono caratterizzare per il tentativo che fanno di incorporare nel loro stesso metodo la possibilità dell'autocorrezione.
La possibilità dell'autocorrezione definisce altresì i metodi delle discipline scientifiche e ciò stabilisce la parentela o almeno l'affinità e la simpatia tra l'empirismo e la scienza. Per es. il metodo dell'osservazione sperimentale, di cui si avvalgono le scienze della natura, comprende un numero illimitato di tecniche ognuna delle quali consente, ad ogni istante, di controllare e di rimettere in questione i propri risultati; ma ognuna di queste tecniche può a sua volta essere ricontrollata e messa in questione sicché si cerca di garantire, in qualsiasi direzione o livello, la possibilità della correzione. Si può allora dire che il metodo dell'osservazione sperimentale garantisce la possibilità della propria autocorrezione.
Possiamo a questo punto renderci conto dell'importante differenza che c'è tra la rettificazione fattuale di un metodo (un destino a cui nessuno dei metodi conosciuti si è sottratto) e la possibilità della rettificazione fatta valere come esigenza di metodo. La prima è la modificazione surrettizia dei metodo proposto, e le modificazioni in cui essa consiste sono fatte a caso e ad arbitrio e si risolvono sempre, in qualche misura, nella smentita del metodo. La seconda, invece, non solo consente, ma esige, la rettifica eventuale del metodo e organizza il metodo stesso ai fini di questa rettifica. Soltanto questa seconda via rende possibile un autentico impegno metodologico, cioè un impegno che non si trovi ad ogni momento di fronte all'alternativa o della smentita o dell'impotenza di operare nel campo stesso per il quale è stato proposto. Possiamo così aggiungere qualcosa al principio metodologico generale e dire che esso, non soltanto impegna all'uso di tecniche di attestazione e di controllo, ma esige, come regola, che esse siano suscettibili di autorettificazione.

5. Empirismo metodologico

Con ciò ho dichiarato le ragioni della mia simpatia per l'indirizzo empiristico del filosofare. E le stesse ragioni indicano che l'empirismo non dev'essere inteso come una teoria intorno all'origine della conoscenza o come la pretesa di ridurre la conoscenza a dati o elementi sensibili, ma piuttosto come un metodo o, meglio ancora, come un'esigenza metodologica. Il problema dell'origine della conoscenza può essere dichiarato fittizio; la possibilità di ridurre la conoscenza stessa a dati o elementi sensibili può essere rigettata come chimerica; e tuttavia l'esigenza prospettata dell'empirismo rimane valida. L'empirismo può essere caratterizzato efficacemente solo dal riconoscimento esplicito (che si ritrova costantemente nelle sue forme storiche) che ogni asserzione dev'essere sorretta da una tecnica di attestazione e di controllo e che questa tecnica dev'essere suscettibile di autorettificazione. In altre parole, ciò che definisce l'orientamento empiristico in filosofia non è una tesi filosofica particolare o un complesso o sistema di risultati specifici, ma il riconoscimento esplicito del principio metodologico generale e perciò la disposizione ad utilizzare, senza obiezioni pregiudiziali, ogni strumento tecnico che soddisfi a quel principio e ogni risultato che possa essere attestato e controllato da uno di tali strumenti.
Di qui deriva l'atteggiamento che l'empirismo assume nei confronti della scienza: con la quale parola intendo non solo le scienze naturali ma anche le discipline sociali, filologiche e storiche in quanto sono provviste di tecniche proprie di attestazione e di controllo. L'atteggiamento empiristico include il riconoscimento della validità della scienza e si avvale delle sue tecniche e dei suoi risultati, proprio e solo nella misura in cui ogni scienza riesce a organizzare efficacemente tali tecniche e quindi a garantire adeguatamente i suoi risultati. Esso non può andare al di là della scienza nel senso di attribuire a tecniche e a risultati scientifici un valore superiore a quello che può essere ad essi riconosciuto in base all'efficacia delle tecniche e perciò al grado della garanzia offerta ai risultati. Esso non può mai diventare scientismo, cioè esaltazione e dogmatizzazione della scienza al di là dei limiti della validità che le sue tecniche impongono, giacché è appunto ai limiti e alla rettificabilità di queste tecniche che l'empirismo è interessato. La scienza non può essere, per l'orientamento empiristico, un mito da sbandierare o da esaltare. Nella scienza, anzi nelle varie scienze (perché non esiste una scienza unica e totale) l'empirismo non può vedere che complessi, più o meno organizzati e coerenti, di tecniche più o meno efficaci a garantire la validità di certe acquisizioni e a mettere continuamente a prova le acquisizioni stesse e le tecniche che le hanno procurate. A questo atteggiamento è perciò connesso il senso operante dei limiti delle scienze, delle imperfezioni delle tecniche e del carattere non dogmatizzabile dei risultati.
Su quest'ultimo tratto dobbiamo fermarci un momento. Non è solo l'empirismo ad utilizzare i risultati delle ricerche scientifiche. Qualsiasi filosofia, anche la più aliena dall'empirismo (si pensi per es. a quella di Hegel) utilizza o cerca di includere in sé una certa somma di tali risultati, sia assumendoli direttamente dalle scienze del tempo, sia desumendoli dalla tradizione filosofica e perciò accogliendoli nella forma che tale tradizione ha elaborata. Questo secondo caso è altrettanto frequente del primo, e si traduce, molto spesso, nella presentazione inconsapevole di risultati scientifici antiquati nella veste di "verità assolute" di natura filosofica. Ma non è l'accoglimento dei risultati della scienza che è importante ai fini di un corretto filosofare. E' importante invece la non-dogmatizzazione di tali risultati: non-dogmatizzazione che è resa possibile soltanto dal considerare i risultati stessi nel contesto in cui sono stati ottenuti cioè relativamente alle tecniche che li hanno consentiti e alle possibilità di modifiche di tali tecniche e di messa in discussione dei risultati stessi. Non è che si tratti di risultati "provvisori" che valgano, necessariamente, solo nel momento in cui sono stati conseguiti. Non si può escludere che molti o pochi dei risultati della scienza siano "definitivi" nel senso che possano riuscire a superare vittoriosamente il controllo di tecniche in continuo processo di autorettificazione. Ciò che si deve escludere è l'irrigidimento dogmatico di tali risultati considerati avulsi dal loro contesto, al di fuori dei limiti di validità consentiti dalle operazioni di controllo e adoperati come pezzi di materiale grezzo per costruzioni di diversa natura, alla cui solidità essi non possono minimamente contribuire. La polemica contro la "metafisica", così frequente nella tradizione empiristica è non soltanto la polemica contro metodi che si rifiutato di rimanere aperti al controllo (polemica connessa allo stesso impegno metodologico dell'empirismo) ma è anche la polemica contro lo scientismo inconsapevole, che non ignora la scienza (o almeno la scienza passata) ma si avvale dei suoi risultati ad arbitrio e ciò, senza tener conto dei procedimenti che, nel seno di essa, li garantiscono in qualche misura.
Che la filosofia possa e debba esser disposta a utilizzare gli strumenti tecnici e i risultati delle scienze, è cosa che non implica né la passività della filosofia di fronte alla scienza né la riduzione del dominio della filosofia al dominio della scienza. Non implica la passività perché l'utilizzazione delle scienze (nei limiti esposti) da parte della filosofia, è non solo nell'interesse della filosofia ma anche nell'interesse delle scienze. Con sempre maggiore urgenza e frequenza le scienze esigono oggi (specialmente quelle più riccamente sviluppate) l'intervento attivo della filosofia non solo su questioni metodologiche, ma anche a certi livelli della loro concettualizzazione e generalizzazione (come per es. per la formulazione delle "teorie generali") e per certe zone di confine o di interferenza fra discipline molteplici; le quali, appunto per la loro avanzata specializzazione, si trovano a mancare di un terreno d'incontro per la trattazione dei problemi che si presentano in quelle zone. Non implica la riduzione dei dominio della filosofia a quello delle scienze, sia per la ragione ora detta, sia perché nessuna scienza o nessun complesso di scienze può fornire un motivo ragionevole per tale riduzione e, meno che mai, può fornirla la filosofia: la quale non può a priori prescriversi zone interdette, salvo che per la riconosciuta impossibilità di penetrare in queste zone con le cautele prescritte dal principio metodologico generale.

6. L' empirismo e il mondo umano

Ora, tale principio non ci ha finora indicato un metodo ma soltanto una famiglia di metodi o, in altre parole, certi caratteri generali e formali dei metodi che possono essere scelti e adoperati da una ricerca filosofica aperta. Fino a questo punto non risulta, perciò, che quel principio possa essere assunto a fondamento di una scelta esclusiva, cioè di una scelta che assuma una particolare tecnica di ricerca ad esclusione di tutte le altre. Ben inteso, non ritengo che questa situazione sia nociva per la filosofia; giacché, se il principio metodologico esprime l'impegno fondamentale del filosofo, sarebbe strano che esso impegnasse il filosofo a impoverire artificialmente il dominio della filosofia, vietandogli, con la proibizione di tutti i metodi tranne uno, l'accesso a regioni dove altri metodi sarebbero efficaci; o, in altre parole, lo impegnasse a ridurre la filosofia, da quel fecondo dialogo che è stato nei secoli, ad un triste monologo.
Ma, se questo è vero, è anche vero, per le stesse ragion che ogni filosofo deve in buona fede operare la scelta del metodo che gli consente il lavoro più fecondo e che questa scelta sarebbe migliore se il metodo scelto non tendesse ad escludere tutti gli altri, ma si mostrasse convergente o almeno compatibile con altri. Ora questa compatibilità e convergenza possono essere poste come problema e così avviate alla realizzazione, solo se si arriva a delineare un orizzonte comune nel quale tecniche diverse possono incontrarsi e mostrare le loro consonanze e dissonanze nonché il grado della loro efficacia rispettiva. E' possibile che il principio metodologico di cui ho parlato ci dia qualche indicazione intorno a questo orizzonte?
Il principio metodologico impegna me come filosofo ( e anche come non filosofo) a dar conto umanamente delle mie asserzioni, cioè a darne conto agli altri uomini (e a me stesso in quanto non voglia farmi vittima dei miei stessi errori, illusioni e fallacie) mediante procedimenti che gli altri (o io stesso se voglio diminuire i pericoli di cui sopra possiamo intendere e adoperare con una certa efficacia. Esso pertanto mi colloca, fin dall'inizio, nell'orizzonte umano o più precisamente nell'orizzonte dell'intersoggettività. Ciò che esso negativamente esige da me, come filosofo, è che io rinunzi alla pretesa di essere il puro occhio del mondo o supervisore divino, il quale, ovviamente, non dovrebbe dar conto a nessuno della verità che asserisce o rivela. Impegnandomi a dar conto agli altri, quel principio m'impegna a considerare me stesso costantemente in rapporto con gli altri; perciò a considerare le situazioni disparate, diverse, contrastanti, in cui mi trovo o posso venire a trovarmi come qualsiasi altro uomo.
A questo punto possiamo renderci conto di una seconda caratteristica dell'orientamento empiristico. Questo orientamento che, nei suoi vari indirizzi, si è avvalso di un'intera "famiglia" di metodi, non solo prescrive l'uso di strumenti di ricerca rettificabili, ma indirizza altresì ad adoperare tali strumenti nel mondo umano. Le due cose sono connesse e possiamo esprimerle con un'unica formula, dicendo che l'empirismo è il tentativo di esplorare, con occhio umano, il mondo umano.
Questo spiega perché l'analisi è stata sempre lo strumento metodico fondamentale dell'empirismo, anche se è stata intesa e praticata (e continua ad esserlo) in modi diversi. Proprio in forza del suo impegno metodologico, l'empirismo è avviato all'analisi delle situazioni umane: non dell'uomo in generale, nella sua essenza isolata ed eterna ma dell'uomo in questa o in quella situazione, nelle possibilità effettive, sempre limitate e non sempre vittoriose, che questa o quella situazione gli consente. Perciò l'empirismo ha anche insistito sui limiti dell'uomo. Questi limiti vengon all'uomo dalle condizioni che definiscono la sua situazione nel mondo: le condizioni naturali e quelle storico-sociali. "Limite" significa infatti "condizionalità"; e l'analisi delle situazioni umane è, sotto questo profilo, l'analisi delle condizioni che delimitano, cioè definiscono e nel contempo limitano, le possibilità effettive di cui l'uomo dispone in un contesto più o meno importante, di eventi controllabili.
L'espressione "mondo umano" che ho adoperato per indicare l'oggetto proprio delle tecniche d'indagine che si possono (nel significato sopra descritto) chiamare "empiristiche" esige qualche chiarimento. In primo luogo, la parola "mondo" non viene qui assunta come "totalità assoluta" ma semplicemente come l'ambito più o meno indeterminato della convergenza, dell'incontro o anche dell'eventuale conflitto di una famiglia di tecniche di ricerca. Una tecnica particolare, se è sufficientemente precisabile, delimita un campo di ricerche possibili, il cui raggio è più o meno esteso a seconda della portata della tecnica stessa (per es. il campo della fisica può essere definito in rapporto alla portata dei due strumenti fondamentali di questa scienza, il regolo misuratore e l'orologio). La nozione di mondo nel suo uso non dogmatico (chiamo "dogmatico" quello che ha subìto la critica di Kant) designa appunto un insieme di campi definiti da tecniche relativamente compatibili e in qualche misura convergenti. Possiamo cosi parlare del "mondo naturale" come dell'insieme di campi coperti dalle scienze naturali nella misura in cui le loro tecniche sono relativamente compatibili e convergenti: o di "mondo storico" come dell'insieme di campi in cui possono essere adoperate le tecniche dell'indagine storiografica; ecc. L'uso della nozione di mondo, in questo senso ristretto e specifico, implica un altro corollario importante - l'uomo come "soggetto" cioè come iniziatore della ricerca e forgiatore degli strumenti di essa, è già, per questo stesso fatto, nel mondo, in quanto la sua iniziativa cade sin da principio sotto il controllo di quelle stesse condizioni che la ricerca è diretta a determinare. Il che vuol dire, per es. che non si può fare la fisica ponendosi fuori delle condizioni che limitano l'uso degli strumenti fisici (principio di indeterminazione di Heisenberg); o che non può fare la storiografia ponendosi fuori della storia, cioè di quelle condizioni che la stessa ricerca storiografica tende a determinare. L'aggettivo "umano", che ho adoperato nell'espressione suddetta, non indica l'inclusione del mondo nell'uomo o la natura antropomorfica del mondo stesso, ma proprio e soltanto questo rapporto di condizionamento reciproco tra strumenti e campo d'indagine, rapporto per il quale il campo d'indagine si configura come un "mondo", a misura che le operazioni d'indagine conseguono riuscite estese e perfezionabili.

7. L'empirismo nella filosofia contemporanea

Si è detto che l'analisi è per eccellenza il metodo delle filosofie ad orientamento empiristico; e che tuttavia l'analisi può assumere forme e modi diversi. Poiché un'elencazione e quindi una critica, esaustiva di questi modi e forme è, se vogliamo rimanere nell'orizzonte empiristico, da dichiararsi chimerica, mi limiterò ad accennare alle forme che l'analisi ha assunto nella filosofia contemporanea.
In questa filosofia il richiamo ad un mondo, come orizzonte di ricerche specifiche, assume tre forme: richiamo all'esperienza, richiamo al linguaggio comune, richiamo all'esistenza.
1) Il richiamo all'esperienza, proprio del pragmatismo, è il richiamo all'uso del metodo sperimentale e alla ricchezza e varietà delle situazioni umane, che esigono la continua estensione e rettificazione del metodo stesso. Il pragmatismo vede nel metodo sperimentale soprattutto lo strumento adatto a dare coerenza, ordine e armonia alle situazioni umane, perciò lo strumento d'azione per eccellenza in quanto destinato a modificare tali situazioni. La debolezza del pragmatismo sta nel presumere l'unità di metodo, nell'assumere come unico metodo quello di alcune discipline e nel ridurre perciò ogni tipo o forma di azione umana all'esercizio di metodo.
2) Il richiamo al linguaggio comune, proprio del neo-empirismo logico, è il richiamo ad avvalersi dell'analisi del linguaggio corrente per il chiarimento delle situazioni umane. L'analisi qui parte dalle strutture di una lingua determinata per giungere alle categorie cioè agli usi linguistici del linguaggio comune che si presume esprimano le situazioni comuni e ricorrenti e siano quindi in grado di eliminare le confusioni e i problemi fittizi e di riuscire al chiarimento critico delle situazioni stesse. A questo tipo di analisi, che tiene conto del fatto che l'uomo è, per eccellenza, un animale parlante e che tutte le tecniche di attestazione e di controllo in suo possesso sono condizionate in generale dal linguaggio e in particolare da usi linguistici determinati, non si può opporre nessuna obiezione pregiudiziale. Si deve però osservare che questa tecnica di analisi non si può porre come esclusiva di tutte le altre ed esauriente di per se stessa il còmpito della filosofia. Ritornerò fra un istante su questo punto.
3) Il richiamo all'esistenza, proprio dell'esistenzialismo, è il richiamo all'analisi delle situazioni umane considerate come "fondamentali" o "essenziali" o "decisive" o "situazioni-limite", ecc., cioè alle situazioni umane più comuni e ricorrenti, che meno si prestano ad essere eluse o dimenticate, come quella per cui l'uomo ha bisogni, o deve lottare, o deve morire, o deve vivere con gli altri; ecc. ecc. L'analisi di tali situazioni è effettuata dall'esistenzialismo contemporaneo, seppure con tonalità diverse, col ricorso costante al linguaggio comune e a quello scientifico, corretti o completati con elementi desunti dal linguaggio filosofico tradizionale o escogitati e proposti ad hoc. Sebbene il richiamo all' "esistenza" agisca analogamente al richiamo all'esperienza, come il memento di rimettere a prova risultati e procedimenti dell'analisi esistenziale, detta analisi offre, tuttavia, il pericolo della pretesa che i suoi risultati offrano le strutture "essenziali", e perciò necessarie, delle situazioni umane, tali cioè, che una volta siano messe in luce, diventi ozioso ricontrollarle o rimetterle in discussione. Il pericolo di questo tipo di analisi è, in altri termini, l'irrigidimento metafisico, cioè la trasformazione surrettizia di acquisizioni analitiche, in "verità eterne" di vecchio stampo.
Questi tre procedimenti analitici non si trovano necessariamente in rapporto di mutua esclusione e, se vogliamo tener fede all'impegno metodologico fondamentale, si può e si deve evitare ogni distorsione di essi che conduca ad un tale irrigidimento esclusivistico. Più precisamente, ciò che la regola metodologica esige è che il problema particolare, che il filosofo si trova davanti e che è interessato ad indagare, non venga artificialmente impoverito e ridotto ad uno solo degli aspetti, e precisamente a quello trattabile con la tecnica analitica preferita. Consideriamo per es. il caso del problema della moralità, inteso come problema dei caratteri e dei rapporti degli eventi detti "morali" o, se si preferisce, della funzione che tali eventi hanno nella vita singola ed associata dell'uomo. Inteso in questo senso, e cioè nell'orizzonte empiristico, il problema morale non si potrà ovviamente affrontare con un discorso elogiativo della morale e con la pretesa di stabilire gerarchie di valori "assoluti" che forniscano criteri necessari di valutazione. Si tratterà piuttosto di comprendere gli eventi morali, cioè di chiarirli nel loro significato e perciò di scorgere la funzione che ciò che si chiama "morale" ha nelle situazioni umane comuni e ricorrenti. Da questo punto di vista, il problema morale offrirà vari aspetti. Esso sarà:
a) Il problema dei significati delle espressioni morali del linguaggio corrente, cioè delle regole di uso delle proposizioni morali in tale linguaggio.
b) Il problema della struttura logica delle proposizioni dette morali, o almeno, in generale, delle proposizioni prescrittive.
c) Il problema delle disparità delle valutazioni morali e quindi delle disparità di uso delle proposizioni morali in gruppi umani allo stesso livello o a differente livello di sviluppo, problema da considerarsi sulla base di osservazioni sociologiche.
d) I problemi dei rapporti tra morale e tecniche professionali, tra morale ed economia, tra morale e diritto, tra morale e religione, ecc. E' chiaro che ognuno di questi problemi o gruppo di problemi esige la messa in opera di tecniche speciali di ricerca e perciò la collaborazione di ricercatori di provenienza diversa che siano in possesso di tali tecniche. Ma è chiaro pure che nessuno di questi problemi, per sé preso, è il problema filosofico della morale, come sopra descritto cioè come problema delle caratteristiche e delle funzioni della vita morale. Questo problema è presente in tutti e ciascuno dei problemi sopra enunciati ma non è riducibile a nessuno di essi. Esso sta, piuttosto, nella zona d'incontro, ed eventualmente di conflitto, fra le tecniche adatte ad affrontare i problemi suddetti e non è suscettibile, a sua volta, di essere affrontato nella sua relativa interezza, se non sulla base di un'ipotesi ad hoc di natura filosofica, che le tecniche particolari chiamate in causa possano confermare o smentire.
Questo esempio, che non ho scelto a caso perché io stesso mi trovo impegnato in una ricerca del genere, può servire, nello stesso tempo, come illustrazione e come controllo dei principio metodologico che ho proposto nel presente scritto.

Da: N. Abbagnano, Possibilità e libertà, Cap. II, pp. 140-158, Taylor Editore Torino, 1956. (Testo di una conferenza tenuta da Abbagnano presso la sezione di Roma della Società Filosofica Italiana il 28 Ottobre 1955). Pubblicato anche nella raccolta di saggi a cura di Nino Langiulli: N. Abbagnano, Critical Existentialism, Doubleday Anchor Books, Garden City, N.Y., 1969.