ALIOTTA A.

Prefazione a N. Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero

Perrella, Genova-Napoli, 1923, pp. III-VII - 1923

Prefazione a N. Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero

Il problema della verità è, si può dire, il problema centrale della filosofia contemporanea, che trae appunto tutto il suo significato dal nuovo modo in cui lo pone e lo risolve in antitesi all'intellettualismo tradizionale. Averlo affrontato con larghezza di cultura storica e vigoria di critica è merito di Nicola Abbagnano; ed il suo volume è un quadro completo della dissoluzione del vecchio criterio di verità e delle nuove teorie che in Italia e fuori si sono proposte per risolvere l'arduo problema.
La tesi dell'Abbagnano è un po' diversa da quella che io sostengo; e questa indipendenza di critica e di giudizio fa onore a lui ed a me che non amo essere un allevatore di pappagalli, ripetenti fino alla stanchezza la solita formuletta. Non sono di quelli che si chiudono nella rocca d'un immutabile domma; e insegnando non disdegno d'imparare anche dai miei discepoli, di svolgermi con loro. Muoversi è segno di vita e di giovinezza dell'anima; quelli che s'irrigidiscono in un chiuso sistema sono i fossili del pensiero. Sono perciò lieto che l'Abbagnano mi dia occasione di chiarire alcuni punti del mio pensiero. Egli ha ben veduto che un radicale sperimentalismo è la caratteristica più notevole della mia teoria della verità in contrapposto all'apriorismo dialettico; ma osserva che l'esperimento, come azione, deve distinguersi nettamente dal pensiero, se vogliamo uscire dal circolo vizioso dell'idealismo. Ora a me pare che l'Abbagnano esageri la differenza del pensiero dalla vita, perché egli considera la conoscenza nella forma schematica ed astratta dell'intellettualismo tradizionale, come un puro sistema di trascrizioni simboliche. Onde il suo modo preferito di rappresentarsi le idee come vane ombre della realtà, invertendo il mito platonico. Ma il pensiero non è forse anch'esso una forma di vita, di attività, di esperienza vissuta? L'azione è senza dubbio più estesa, oltrepassa il pensiero, la vita è più vasta dell' idea; e ciò basta a spiegare la funzione dominante che io attribuisco all'esperimento come unico criterio di verità, e nella scienza, e nella filosofia. Ma il pensiero stesso è azione concreta, e, come tale, realtà e non semplice segno di essa. Il simbolo con la sua funzione è pure un frammento di vita. L'atto di riflessione è anche un atto di concreta esperienza in un solo e indivisibile momento.
Pensando, dunque, non usciamo fuori della vita; che anzi l'esperienza immediata nell'idea assurge ad una superiore potenza. E non è vero che il pensiero ci chiuda in noi stessi e che non abbia e non possa avere alcuna funzione nella conquista degli accordi superiori, limitandosi soltanto, come sostiene l'Abbagnano, a rifletterli in una rappresentazione simbolica. Povero pensiero, ridotto solo a prender nota di ciò che la vita fa, senza alcuna propria efficacia reale! Ma se anche il suo ufficio si limitasse a darci la consapevolezza della vita, illuminando della sua luce il gioco delle oscure forze sotterranee, questa illuminazione non sarebbe essa stessa un accrescimento di vita? Non sarebbe una elevazione dell'essere? Ma vi è qualcosa di più: come negare infatti l'aumento di potenza che attraverso i concetti scientifici si realizza? Come negare la coordinazione di esperienze che per mezzo di essi si attua? L'idea, come ipotesi, vien prima dell'esperimento e lo dirige. Non si procede alla cieca. Il pensiero non si limita a registrare l'accordo raggiunto, ma agisce efficacemente per attingerlo. Il risultato spesso oltrepassa l'idea, ma questa non è stata perciò vana; come non è inutile l'opera meditata del coltivatore, se anche le oscure potenze della vita collaborando con lui producono, nella fertile vegetazione dei campi, effetti che vanno al di là di ciò che il suo solo pensiero potesse fare.
Il punto debole della teoria che l'Abbagnano ci presenta intorno al valore della conoscenza è l'irremediabile dualismo di pensiero e vita, per cui il pensiero, per quanto si dica emergere dalla vita, rimane fuori dì essa, e la vita, alla sua volta, resta fuori del pensiero. E non si comprende come si possa affermare la povertà dell'idea rispetto alla concreta realtà del momento di vita di cui è il simbolo, se la vita, come tale (e non nel suo segno logico) non è colta nella conoscenza. Questo confronto non può farsi attraverso il pensiero che ci dà solo trascrizioni intellettuali, e non ci permette di trascenderle; non rimane dunque altra via che asserire che quell'inadeguatezza è vissuta. Ma il vivere o è completa assenza di consapevolezza, e allora non ci è in alcun modo presente; è energia fisica, di cui si ha l'idea, ma che non è in altro modo attinta direttamente. O è intesa come immediata esperienza spirituale, e allora si può escludere che sia conosciuta nel senso intellettuale della riflessione, ma si deve ammettere che se ne ha una concreta e diretta cognizione. Sentir gioia o dolore è aver concreta coscienza della gioia e del dolore. Mi pare insomma che non si possa sfuggire alla necessità di riconoscere una forma di sapere immediato immanente in ogni atto di vita. E questo concreto sapere che accompagna l'emozione vissuta e l'idea della medesima emozione, rende possibile di cogliere la loro diversità, di distinguere, p.es., il concetto astratto della paura dalla paura effettivamente provata. Ne questa concreta cognizione si perde passando alla conoscenza rnediata, al pensiero, il quale la conserva inquadrandola in uno sfondo più vasto, in una rete più larga di relazioni, che, nulla togliendo alla realtà del momento vissuto, lo eleva ad una superiore potenza. Non bisogna considerare l'idea nel segno astratto che la esprime; essa è più che un simbolo, è la realtà stessa svolta ad arricchita. Il pensiero non è l'ombra della vita, ma la vita stessa potenziata, nel suo sforzo incessante verso una superiore armonia. Sforzo non mai interamente esaurito; onde rimane sempre nell'oceano della vita qualcosa che non è ridotto a pensiero. L'azione oltrepassa incessantemente l'idea, e la realtà non riesce mai a razionalizzarsi pienamente. Ma la vanità dell'impresa hegeliana di ridurre tutto a ragione e a pensiero, non ci deve trascinare all'opposto estremo di far cadere l'essere completamente fuori dell'idea.
Certo per chi fa, come l'Abbagnano, questa scissione, non ha senso attribuire al pensiero una funzione armonizzatrice della vita; ma io ho mostrato appunto che quella scissione non deve farsi, e che tutte le difficoltà del vecchio intellettualismo derivavano appunto dall'intendere i concetti nel loro astratto schematismo. Di questo modo astratto di ragionare si serve l'Abbagnano, quando mi mette davanti al dilemma: o identità assoluta, o irreducibilità assoluta delle attività individuali; dilemma che rassomiglia al vecchio modo intellettualistico di porre il problema dell'uno e dei molti. Certo quando dell'unità si fa un'ipostasi e dei molti altrettante ipostasi sostanziali, riesce impossibile conciliare l'uno e il molteplice. Ma il torto della vecchia logica intellettualistica è di voler schematizzare in questi rigidi concetti la realtà; e alla mia veduta che vuol combattere il criterio dell' identità assoluta non si deve applicare naturalmente questo criterio. Ogni sistema va giudicato dal suo punto di vista. Per me l'identità ha solo un valore relativo e pragmatico, che non esclude la diversità. E le parole " identità assoluta", "diversità assoluta" non hanno senso. Non irreducibilità assoluta delle prospettive e dei fini individuali e neppure accordo assoluto, ma concordía in ogni momento della storia. L'Abbagnano ha giustamente notato che io presuppongo sempre una certa armonia, ma poichè questa non è mai definitiva e completa, lascia sempre posto per la relativa eterogeneità dei fini individuali, essendovi sempre qualcosa che non è ridotto ad unità. Solo dove l'armonia è inizialmente assoluta e perfetta, come nel sistema del Leibniz , non vi è margine per la spontaneità individuale e per le nuove creazioni. Io non parto dunque da una pluralità disgregata per giungere all'unità: ma da un'esperienza che è sintesi concreta della mia vita e della vita di tutti gli altri esseri. L'unico spirito dell'idealismo assoluto, come la molteplicità degli spiriti, atomisticamente intesa, sono per me false posizioni astratte; la realtà concreta è nell'immediata esperienza della sintesi dinamica, che ci dà insieme la distinzione e l'unità intimamente fuse in un modo che nessuna trascrizione logica può farci intendere. La vita risolve i problemi che l'intelletto crea con le sue divisioni artificiose, coi tagli netti dei suoi schematismi concettuali. L'Abbagnano ha ragione: è proprio questo il motivo profondo del mio pensiero. Ed è la vita dell'esperienza nella sua storia, cioè non l'arbitrio individuale, ma l'esperimento sociale, che stabilisce le gerarchie dei valori di verità. Ma se la vita è insieme individuale e comune, perché il pensiero dovrebbe invece essere irriducibilmente mio? Il pensiero, lo abbiamo già detto, non è un semplice simbolo, ma è senza dubbio anch'esso una forma di vita; e, come tale, possiede i caratteri di tutte le altre esperienze. In esso, come in tutta la vita, l'individuale non esiste scisso dall'universale. Non potrei neppure dir mio il pensiero se non lo determinassi distinguendolo da ciò che non è mio. Per affermare me stesso debbo superare la mia particolarità. E la verità del mio pensiero perciò non si pone per un atto di arbitrio soggettivo, ma fa appello alla coscienza sociale in cui compirà il suo grande esperimento. Le idee non sono puri segni, ma azioni efficaci che attendono anch'esse la loro prova della storia.
                                                                                                                                                                                                                             ANTONIO ALIOTTA

In: N. Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero, Perrella, Genova-Napoli, 1923, pp. III-VII.