PAOLINI MERLO S.

Mito e ragione mitica. Corollari sull’estetica di Nicola Abbagnano

in “Segni e comprensione”, Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” di Roma, anno XXII, Nuova serie, n. 64, gennaio-aprile 2008, pp. 43-53 - 2008

Mito e ragione

 
 Mito e ragione
 
Coerente con la propria direttiva realistica e antiromantica, Abbagnano tratta solo in modo occasionale del fenomeno mitico, e il suo approccio è abitualmente dei più distaccati e severi. Nessun parallelo sotto questo aspetto si direbbe proponibile con Enzo Paci, spesso indicato come il deuteragonista laico dell’esistenzialismo italiano, il quale viceversa presterà costantemente grande attenzione all’argomento. Laddove quest’ultimo riferisce di un «rifiorire del mito facilmente ritrovabile nel ritorno allo studio della mitologia e dell’etnologia»1, citando fra gli altri Toynbee e poi tutto un rinnovato interesse per le filosofie della storia in senso vichiano, Abbagnano ritiene non meno presente nella società contemporanea, e non meno essenziale, «la tendenza opposta a demitizzare, e a considerare nozioni e concetti nei loro limiti, a esaminarli per definire appunto tali limiti e stabilirne la validità e la funzione effettive»2. Dove per Paci, e più di recente per Blumenberg e Kolakowski3, le espressioni e le esigenze che conducono l’uomo al mito non possono né debbono ritenersi evitabili o trascurabili, Abbagnano in linea di massima pare spinto nel merito a ribadire l’illusorietà e futilità di questi atteggiamenti, siano essi inclusi o estranei al fatto artistico. Il mito dunque, a considerarlo in questi termini, è utopia oracolare, rimpianto nostalgico di un’assoluta ma inconsistente ambizione, fanatismo ed esasperazione polemica, credenza ingenua in un inesorabile procedere verso il meglio: «[...] la credenza nel mito è fragile, scrive Abbagnano, perché cede al primo urto della realtà e dopo di sé lascia il vuoto. Nella civiltà contemporanea, fondata com’è, in tutti i livelli, nell’esercizio dell’intelligenza, il mito è ancora più fragile»4. E ancora, a breve distanza, ripete perentoriamente: «la tendenza a mitologizzare e quella a razionalizzare si scontrano in tutti i campi, ma permangono ormai pochi dubbi su quella alla quale l’uomo moderno deve affidare le sue sorti. Forse miti ce ne saranno sempre o in ogni caso tenderanno sempre a risorgere o riformarsi: la via del mito è la più facile. Ma la via più difficile, qui come altrove, è la migliore; e la ragione non deve deporre le sue armi di fronte a nessun mito»5.
Procediamo tuttavia a un secondo piano di lettura: qual è il senso più interno e filosofico riconosciuto da Abbagnano al mito? Risalendo a uno dei primi saggi in cui il filosofo si serve della nozione di mito, e pertanto a una delle più archetipiche impostazioni del suo contenuto teoretico che sia possibile riferire all’impianto dottrinale di questo autore, notiamo che “mito” è ciò contro cui la ragione si oppone nel proprio autonomo atteggiamento di ricerca. “Mito” è allora un equivalente di “tradizione”, di “pregiudizio”, di “errore”, e in generale di «ogni atteggiamento che tenda a immobilizzare l’uomo nel possesso e nel godimento passivo di un patrimonio di credenze già stabilito»6. Come si vede, si tratta di una concezione del mito estremamente precisa. In primo luogo esso è un limite di ragione, ciò che ne inibisce il funzionamento e ne distrugge la coerenza interna; in secondo luogo, che riteniamo più importante, il mito è un eccesso verso cui la ragione, sia poi essa storica, scientifica, artistica o altro, si sente attirata come per il tramite di un sogno esaltante. Infine, ed è quanto desideriamo maggiormente rimarcare, il mito è condizionamento, vale a dire persuasione emotiva preposta al controllo delle condotte individuali7. Al che si deduce che esso non è, come pure è, inclinazione a idealizzare l’irreale e il paradossale se non perché ancora prima è inclinazione ad adoperare quest’idealizzazione in vista di fini pratici particolari, specie se utili a un rafforzamento della continuità culturale. Abbiamo allora, spiega meglio Abbagnano, che «nel linguaggio colto corrente, la parola mito non è ristretta a significare un racconto fantastico imperniato su personaggi irreali, ma è estesa a designare qualsiasi nozione, esaltata al di là dei propri limiti scientifici o razionali, carica di persuasione emotiva e adatta perciò a controllare, in un modo qualsiasi, la condotta degli individui»8. Il mito che è ora oggetto di critica non è quindi il mito nel suo significato ristretto di vicenda pubblicamente narrata di un immaginario possibile, ovverossia di simbolo metalogico e di linguaggio volto al surreale, quali sono poi i requisiti più specificatamente estetici e poetici di esso, ma il mito strumento di assoggettamento totalizzante, di subdola preconfezione dello stupore e della curiosità. Un mito cioè che a sua volta è soggetto all’asservimento di qualcosa d’altro, che mito non è. In altri termini, Abbagnano non mostra d’interessarsi alla natura autonoma, caratterizzante in sé il fenomeno mitico, ma sempre a questo o a quel suo utilizzo predeterminato, didattico e didascalico, massmediologico e propagandistico, o comunque altrimenti si intenda quello che ne riduce il potere di seduzione a oggettività rassicurante, a parafrasi di una consuetudine mentale, a espediente riconoscibile di un codice linguistico rigido e inalterabile. Insomma, a ciò che non è più, o non ancora, parte viva del mito come situazione esistenziale9. A tale riguardo, richiamandosi a Georges Sorel, Abbagnano parla di «mito dello sciopero generale», equiparandolo in linea di principio ai miti «della libertà», «della democrazia», «della rivoluzione», «del benessere», «della tecnica», «della pace» o «della guerra», «della sicurezza» o «dell’assurdo»10.
Questa visione del mito, chiaramente guidata da una più che evidente preoccupazione morale oltreché filosofica, quali ripercussioni conduce sul piano dell’arte? La prima è che, quando si ha a che fare con realtà o espressioni mitopoietiche, o in generale mitologistiche, non sarà mai legittimo confondere il mito, come semplice espressione spontanea di un immaginario collettivo, che in sé è assurdo e antiragione, pura surrealtà ipotetica, con “il mitico”, che qui potremmo limitarci a descrivere come “mito-di”. Se il primo è costitutivamente, per riprendere il discorso di Kolakowski, un tentativo accordato alla libertà e alla identità coscienziale di portare risposta a bisogni fondamentali di significato che sono atavicamente radicati nell’indole umana11, il secondo è un abbandonarsi al compiacimento fanatico (in fin dei conti remissivo) di quegli stessi bisogni. Per cui, se questi ultimi sono “mitici”, ovvero conclusi e ottimizzati nel proprio divenire immaginari, non c’è alcuna ragione di credere realmente a essi o di operarne una concretizzazione che dal non senso passi al senso. “Mitico” è cioè la sola esemplarità del mito, quanto di quello si assolutizza nel proprio possibilizzarsi figurativo o rappresentativo, sopravanzando e rendendo perciò futile ogni nostra risposta ai quesiti interiori del sentire, e anzi lasciandoci regolarmente credere che davvero anche nel caos l’uomo possa trovare un alleato dal quale, alla fine, trarre vantaggio.
Ma è appunto questo ciò che Abbagnano combatte: il mito di qualcosa d’altro dal mito, il mito dell’assoluto, il mito di un’incondizionata, romantica e idealtipica fede nel conciliabile come nel non conciliabile, nell’ottimistico come nel pessimistico. È il mito fideistico, per cui ogni dubbio o critica individuale risultano revocati o banalizzati come fattori transitori. Dal che si deduce che per Abbagnano mito da un lato non è ragione, ma dall’altro non è neppure fede in senso religioso. Nel mito vi è infatti la richiesta di una presenza positiva e per certi versi di riferimento, ma non come per la fede confessionale, la quale piuttosto va alla ricerca di quella presenza nella distanza più incolmabile e nell’alterità più impenetrabile. Il mito è la presenza ultrarazionale che l’uomo e l’artista ricercano nell’immediato, nel concreto, nell’istantaneo occasionale. È, in altri termini, l’indeterminazione profonda dell’essere su cui Abbagnano erige il processo di struttura che costituisce l’esistenza; è l’espletazione simbolica dell’imprevedibilità della vita. Attaccare il mito equivale pertanto, in Abbagnano, a un deassolutizzare il suo ambito mitico, non invece a fare della mitoclastia o ad abolire ogni sua possibile poiesi. Screditare il mito o in qualunque altro modo ritenerlo superabile sarebbe semmai, in questo senso, come negare l’errore. Indubbiamente, Abbagnano non sembra fare alcuna distinzione tra mito e mitizzazione, né sembra rapportare il mito alla struttura esistenziale o l’empito inventivo del suo narrare al senso “catartico” dell’arte o al processo di ritorno-recupero verso la sensibilità naturale. Tuttavia, va ripetuto, come fatto simbolico, come cioè linguaggio significante, anche il mito può, allo stesso modo dell’arte, essere detto abbagnanamente una “forma di ragione”, di una ragione però che tende all’esaltazione fanatica e al compiacimento ingenuo per l’indiscernibile. Una ragione insomma esemplificatrice ed estetizzante. Cos’è invece, nel proprio requisito autentico, la ragione di Abbagnano? Essa è “struttura”,
intesa come processo che dalla vita va al conoscere, ed è possibilità problematica, quale sereno riconoscimento della misura e delle effettive possibilità dell’uomo12. Il mito potrà dunque venire recuperato nella struttura esistenziale della ragione senza per questo essere soppiantato da essa: questa struttura infatti non può essere “mitica”, mentre il mito può a ogni momento entrare a far parte della struttura esistenziale.
Gli indizi di questo recupero negli scritti dell’Abbagnano maturo hanno una loro certa ricorrenza: si troveranno così elogi alla ricreatività della “chiacchiera”, o alla funzione di svecchiamento culturale della moda (a proposito della quale - viene detto - «ogni disdegno, come ogni esaltazione [...], è fuori posto»)13, mentre altrove si leggerà di auspicabili «sagge pazzie», poste quale rimedio tanto alle fascinazioni dell’assurdo quanto a quelle di una ragione onnipotente: «se una pazzia deve esserci, torniamo a quella che Erasmo elogiava: quella che rende la vita accettabile e non blocca l’io nella sua prigione»14. Non che questo serva a smentire alcunché delle sopramenzionate considerazioni scettiche sul mito, le quali verranno espressamente ribadite sino in ultimo, ma certo vale a renderle un poco più complesse. Se, ancora negli anni Ottanta, Abbagnano potrà dire che l’uomo «non può vivere oggi nel mito di un inferno di dannazione o di un Eden beatificante»15, saprà tuttavia osservare che la parola “ideale” può spesso venire usata, nel linguaggio comune, «in un significato più modesto e concreto», che in sostanza rimanda alle scelte «che si vorrebbe fare con convinzione»16. Negli stessi sogni che si accompagnano alle vicende della nostra vita reale, riconoscerà espressioni e sintomi di un atteggiamento positivo dell’uomo di fronte al proprio incerto futuro. I sogni, quando si mantengano gli occhi bene aperti, non sono frutto dell’azione di chi vuol obliare o respingere la vita vissuta, ci si dice, ma «barlumi di gioia, possibilità di vittorie e di pace che fanno da contrappreso agli aspetti negativi e aiutano a vincerli. [...] Ben radicati nella realtà in cui viviamo, accettiamo il sogno che la vita ci offre»17.
Riteniamo pertanto possibile concludere che Abbagnano non abbia inteso fare critica del mito quanto piuttosto di una ragione mitica, ossia di una ragione che, astraendo e assolutizzando l’immaginario
 
mitologico nella sfera tipizzante ed esemplificatrice del ‘mitico’, tenti perciò di rendersi mito essa stessa. Non è l’ardimento né l’incognita in cui il mito lascia volteggiare le sue forme ciò che Abbagnano decide di ridimensionare, ma l’idolatria dell’assurdo, l’impazzimento esaltato o l’evasione dai problemi della nostra vita, come egli preferisce dire. Non è in questione l’esigenza di libertà e di personale espressione che nel mito l’uomo ricerca, ma quella ragione che voglia sostituirsi a esso. Il mito è infatti completamente privo di continuità logica, assolutamente gratuito ed esigenziale. Confusa al mito, la ragione, e con essa qualsiasi principio di forma e di misura, presto barcolla e diviene irresponsabile vacuità, fragile arbitrio, imprigionante autocompiacimento. “Strutturata” a esso, quella ritrova vigore e serenità, ritrova cioè fiducia di sé senza tramutarsi in pretesa avventata o in ingenua creduloneria. Che poi sia la ragione del senso comune ad arrogarsi le fattezze del mito piuttosto che quella scientifica o artistica, conta poco; ciò che Abbagnano respinge e condanna è l’aspetto razionale del mito, il suo scadimento retorico. Il recupero critico della ragione rispetto al mito si espleta quindi nella logica abbagnaniana, anche o congiuntamente, come recupero della ragione mitica, non più assumibile come “mito della ragione”, cioè come fiducioso abbandono della ragione a se stessa, bensì come “ragione del mito”, come lucido riconoscimento di quanto non sappiamo comprendere, di quanto ci assoggetta al turbine della vita e alla finitudine dell’esistere concreto.
Il problema che proponiamo, richiamandoci alle direttive complessive dell’impianto estetico di Abbagnano, è perciò che il mito, anche quando è ragione, non è e non può divenire ragione; si serve, è vero, di essa, ma le va tenuto rigorosamente distinto. Una critica della ragione mitica potrebbe quindi assumere l’aspetto di una radicale riformulazione del modo per cui i miti vengono pensati o tradotti in idee pensabili, partendo dalla constatazione propria di Abbagnano per cui ogni linguaggio simbolico - qual’è difatti non solamente l’arte, ma ogni “mitema” nel proprio aspetto mediativo e allegorico - non è altro che un possibile18. È, cioè, non un rivelarsi diretto dello Spirito, dell’Essere o di Dio, ma semplicemente un’escogitazione strategica, niente affatto univoca o necessaria, della realtà che la mente indaga. Se così non fosse, il linguaggio di ogni creazione artistica risulterebbe inutile e impossibile, o peggio resterebbe incomunicabile. Ammettere o comunque «riconoscere il carattere simbolico del linguaggio significa quindi principalmente riconoscere il carattere non-necessario del rapporto parola-realtà; significa riconoscere che tale rapporto è condizionato da atteggiamenti, che si possono indefinitamente variare e che aprono quindi un campo più o meno vasto alla scelta»19. Ed è in questa fluttuazione possibilistica, in questa radicale condizionabilità e varianza decisionale, che Abbagnano riapre l’espressione artistica, come simbolo della ragione, all’indistinto e all’incognita del mito. Mito che allora non è descrizione di qualcosa di preciso o di definitivo, ma il resoconto operativo di un ipotetico indiviso da dividere o completato da riprendere, all’infinito. Mythos e logos sono pertanto dimensioni
 
trascendentali da porre in stretta alleanza fra loro20, ma appunto per questo da lasciare al contempo completamente distinte e autonome l’una rispetto all’altra. Esse costituiscono, mediante ciò che Abbagnano definisce un rapporto “sistatico”21, la struttura della ragione umana, dove il mito è il momento situazionale di partenza di una struttura esistenziale dei simboli logici, o, in altri termini, il simbolo del conoscere creativo, quando esso, pure già completamente situazionato, è ancora indeterminabile.
La ragione, nella sua duplice valenza intellettiva e percettivo-immaginativa, è ciò che, individuando sperimentalmente una forma della natura, limita, spinge lontano, e pertanto ri-de-finisce il mito; mito è dal suo canto ciò che, riaprendo all’indeterminazione possibile la problematicità della ricerca creativa della conoscenza, la arricchisce e ne rende necessarie la modifica e la reimpostazione. Come struttura, perciò, il mito è esistenzialità, è situazione concreta. Come struttura, il pensiero è simbolo non razionale della ragione, è ricerca di un’unità ipotetico-postulatoria (l’identità di Meyerson)22 che non è mai del tutto parte del dato osservato, e che come tale rappresenta il primo passo della fantasia umana. L’esigenza di unità e significazione che il pensiero vuole è il mito cui la ragione fa riferimento per attuare le sue momentanee conquiste, e per ripossibilizzare normativamente la propria interazione sistatica con il molteplice della realtà naturale. Rintracciandovi le medesime inclinazioni tragiche della filosofia esistenziale, lo stesso Paci propone raffronti assai emblematici con i motivi mitologici più ricorrenti della letteratura del Novecento, da Mann, Kafka, Eliot, Mallarmé, Proust, sino al Joyce dell’Ulisse e della Veglia di Finnegan. Come avvenuto per ognuna di queste poetiche,
l’esistenzialismo si collega a ogni mito che rappresenti il dramma della perdita dell’esistenza e della sua riconquista. [...] Il mito tratta sempre di una perdita di sé e di un ritrovamento, a volte insiste di più sul lato negativo della perdita dell’esistenza, altre si apre la strada verso soluzioni positive, in altre ancora presenta lo stato negativo come una situazione non solo di angoscia, ma di paura, di peccato, di colpa e di condanna23.
Se tuttavia la lettura di Paci sembra largamente a favore di quest’ultima interpretazione del mito, nell’estetica di Abbagnano nessuna alternativa potrebbe risultare più erronea. Nel proprio contenuto
 
elettivo, il mito che qui si direbbe attingibile è forse più un mito di espiazione, infinitamente distante da quello dell’ironia e della sfida. Un mito “di struttura” non si risolve né in vuoto pessimismo, né in placido ottimismo, come per il caso indicato, perché in entrambe i casi esso nasconderebbe, se bene valutato, la rinuncia alla ricerca e alla sperimentazione. L’uno e l’altro sono come i due volti di quel germe decadentistico che già Norberto Bobbio aveva colto a intaccare sin dalle fondamenta tutti gli esistenzialismi della “crisi”, ovvero della perdita - parsa inaudita ai più - di ogni basamento ontologico. I motivi estetico-poetici di questa filosofia dello scoramento, Bobbio li riteneva perciò la conseguenza di un antinaturalismo estetizzante «dove la natura è sentimentalmente degradata a sfera del vivere opaco, uniforme e impersonale», assai prossimo perciò a un simbolismo in cui «la natura [è] degradata a mondo della oggettività e della necessità», e a un ermetismo «che è l’esoterismo nel suo aspetto puramente estrinseco e verbale»24. Tuttavia, epurati da quella “fuga dal reale”, da quella “paura dell’essere” e da quel “distacco dalla vita”, è certo che quegli stessi motivi, precisamente nel loro suggerire l’inadeguatezza della parola come segno, acquisirebbero una forza evocativa e dunque un significato del tutto differenti e nuovi, quelli che si insinuano tra la realtà e il pensiero, quelli metaforicamente racchiusi nel «distacco tra la forma e la vita»25 cui essi rinviano. Mito è allora ciò che nella natura, e per conseguenza nell’arte, si proietta oltre la ragione e oltre le sue capacità di oggettivazione, ma che pure, nascondendosi, tenta esprimersi come contrasto che ha urgenza di conciliarsi. Questo è quanto, nell’attività pratica dell’artista, spinge la ragione verso il mito sino a farne una forma regolativa del pensiero: esso infatti non viene dall’arte come non viene dal reale, non si genera mai nella sua forma oggettiva come neppure nel soggetto che la pensa. Essa è l’esigenza vitale che l’uomo e l’artista sentono di comprendere meglio se stessi, non fuori ma entro e attraverso i propri limiti. Puntualmente, l’arte della ragione e del sentire decadenti non fa che disconoscere tutto questo, mostrando non solo d’essere incapace a emanciparsi dall’assoluto della perdizione o dell’esaltazione aproblematica, ma innalzando le miserie del mito sintanto da farne un “modello” e un “idolo”.
Complessivamente, tre sono i miti razionalizzatisi a questo modo nell’arte: la bellezza, in quanto ordine necessario; l’unità, in quanto uniformità esaustiva; la perfezione, in quanto purezza esemplare incondizionata26. Ognuno di questi mitismi risiede in definitiva nell’alveo di un unico mito, certo molto meno appariscente e parecchio più delimitato: quello dell’autentico. Autentica, tuttavia, è per Abbagnano non più l’arte capace di restarsene tranquillamente uguale a ciò che già è, ma un’arte che ha riposto e
 
Neppure ci sembra privo di rilevanza che il filosofo abbia attribuito l’esaurirsi del sublime nelle arti post-moderne a un suo implicito ma erroneo impiego neo-romantico e soggettivistico di derivazione post-kantiana, quale cioè «senso di superiorità dell’uomo sulla natura». Viceversa, in seguito al crollo dell’infinità spirituale del pensiero, della ragione, della stessa dignità morale, l’uomo ha imparato che nella dimensione del sublime, la quale niente è di fatto se non quella di un bello assolutizzato dalla ragione mitica, egli non può più illudersi d’esaltare la propria superiorità. Non può cioè «affidarsi a questa superiorità per risolvere a suo vantaggio il rapporto con la natura: deve lottare con la natura ad armi pari, su piede di eguaglianza, e non dall’alto di una superiorità inaccessibile. L’eclisse del sublime è l’eclisse della infinità dell’uomo; è il segno o l’annunzio di una concezione meno esaltante ma più realistica e, in fondo, più umana dell’uomo»ripone per intero se stessa nel principio del possibile, servendosene quale suo organo trascendentale27. Se piuttosto scarso è lo spazio riservato da Abbagnano alle tematiche del “bello” e del “gusto”, in compenso ci è sufficientemente noto quale sia la sua opinione in merito ai pericoli di qualsivoglia uniformazione necessitante e definitiva, o quanto poco egli abbia inteso trascurare la relatività e antieternità di “ordine”, “equilibrio” e “armonia” dei prodotti artistici, temi questi ultimi che tanto profondamente avevano a suo tempo indotto correnti quali l’espressionismo, il cubismo, il futurismo e il dadaismo alla rivalutazione del “caso” 28.
E in effetti, se la bellezza non è dell’oggetto, perché mai dovrebbe rimanere tutta rinserrata nel soggetto? L’oggettività come ordine necessario, di fatto, non è certamente la sola realtà di un oggetto, né il soggetto la sola inferenza di esso. L’identità di un qualunque giudizio di gusto, così come la vorrebbe il realismo ingenuo, è semplicemente l’impossibilitazione del gusto. Di più: è un veto alla sua conoscibilità. Il giudizio estetico, viceversa, non assegna mai alcun valore di realtà all’oggetto ma, considerandolo miticamente, lo preleva dal molteplice in modo che sappia ipotizzare questa sua oggettività per un determinato valore. L’oggetto, pertanto, acquista bellezza non perché la riceva da chi lo individua e lo osserva, ma al contrario perché, non concedendo mai d’essere totalmente osservato, suggerisce un richiamo e una richiesta fondativa di sé nella volontà del soggetto. Nient’altro che in questo consiste l’esperienza estetica del pensiero: nel richiamo a un possibile che viene sottratto al suo potere, richiamo che agisce appunto sottraendosi al suo possesso visivo. È irrilevante e inifluente rilevare quanto poco la bellezza di un oggetto possa vivere per proprio conto senza riscontri o interazioni dinamiche, perché questo sarebbe come credere che ogni proprietà connaturata all’oggetto possa e debba andare sempre bene per tutti e che tutti possano ritenerla scontata e rassicurante. Il punto è invece che non c’è nessuna bellezza nell’oggettività dell’oggetto, che in se stesso è sterile e muto, e che se davvero nell’oggetto
 
questa bellezza vi fosse, qualunque oggettività (compresa quella del soggetto) andrebbe perduta per sempre. E questo veramente sarebbe mitomania e idolatria, perché sarebbe mito decaduto a ragione riflettente. In poche parole, la bellezza non detiene alcuna valenza percettiva ma si origina solo per un’esigenza mitica del sentire; questo sentire, tuttavia, per quanto autonomamente conservato dal soggetto pensante, si libera e si estende perché predisposto per lui da un oggetto. Dunque, al di là delle casuali proprietà interattive dell’uno o dell’altro, la bellezza non è un oggetto, giacché non coincide col proprio ordine interno, e non è neppure nel soggetto, perché allora non avrebbe libertà né autonomia. La bellezza è il mito, momentaneo e iniziale, di una situazione sistatica della conoscenza.
Venendo all’unità, «intesa come uniformità di gusti, di tecniche, di stili, e di valutazioni e teorie estetiche», Abbagnano la ritiene non solo estranea, ma anche insanabilmente contraria al fenomeno artistico. Sebbene i problemi tecnici e sociali connessi all’arte odierna si prospettino dei più difficili, «il rimedio non può essere la rinuncia alla libertà artistica e il ritorno a tecniche o stili divenuti convenzionali», ma piuttosto il pieno approfondimento di una libertà artistica che «non tolga, diminuisca o manometta la libertà stessa. [...] Ciò significa che si può apprezzare adeguatamente la pittura di Leonardo o di Caravaggio e insieme quella di Picasso e degli astrattisti. Significa pure che si può apprezzare adeguatamente la forma classica della sinfonia beethoveniana e tuttavia rendersi conto che esistono esperienze o atteggiamenti che mal si presterebbero a essere espressi in quella forma e esigono perciò nuove forme e nuove tecniche»31. Questo è propriamente un altro grande errore della ragione mitica: elevare la libertà delle forme artistiche a prototipo di eccellenza o di esaustività, di fronte al quale «ogni altra forma è decadenza, errore, quindi non arte»32. Siffatti miti, uniformati e uniformanti, vendono un’immagine di se stessi che è null’altro dal paradigma della neutrale disposizione osservativa di una collettività anonima, così come prevista da un oligopolio culturale o da una élite politica. Tanto più essi valgono come miti, tanto meno ostacolano questa neutrale inghiottitura del recepire collettivo. Quel mito che si ponga come l’insostituibilità di se stesso e che perciò si renda bastevole a se stesso, non veicola più una possibilità ma una necessità ineludibile, un legame di dipendenza e di controllo. Da quest’equivoco razionalistico deriva l’altro, forse il più eclatante, della perfezione in quanto conseguenza estetica di un’esemplarità, ovvero in quanto pretesa di assegnare uno statuto di validità incontrovertibile a un certo determinato “segno”, “realtà” o “atteggiamento” del significato simbolico. Diversamente, Abbagnano avverte che fra questi tre elementi del simbolo non esistono «connessioni necessarie, ma soltanto possibili, e che perciò l’attività artistica può inserirsi liberamente nel gioco dei loro rapporti»33. Tanto l’arte pura, l’arte cioè «come contemplazione indipendente da ogni conoscenza o bisogno pratico»34, esclusa crocianamente da ogni fine utilitario come è quello di infrangere e modificare gli impigrimenti di coscienza della società, quanto l’arte engagée, che «intende rimanere fedele agli atteggiamenti propri di
 
una ideologia politica determinata e quindi avvalersi soltanto della libertà di simbolizzazione e non dell’altra, che consiste nel rinnovare gli atteggiamenti stessi che sono alla base della simbolizzazione»35, vivono nell’illusione di un privilegio di eccellenza e di perfezione del mezzo espressivo che adottano. Ma elusi in questo modo i risvolti etico-pratici dell’arte, vengono meno anche le sue contraddittorietà:
L’arte può evadere dalla realtà e rifugiarsi nella sfera della contemplazione pura o può tuffarsi nella realtà stessa e scrutarla nella sua natura corposa, riprodurla nelle sue inquietudini e nei suoi conflitti. [...] Queste alternative si offrono all’arte perché si offrono all’uomo. La scelta di una di esse non elimina l’altra che, alla prima occasione, si ripresenta. Per l’arte come per l’uomo, la scelta non è mai definitiva: occorre scegliere sempre da capo. [...] È, questa, certo, una concezione scomoda, cui è naturale cercar di sottrarsi. Fra l’altro, essa esclude l’ingenua fede nei “capolavori eterni”: ciò che in una certa alternativa è un capolavoro, non lo è più se si imbocca un’alternativa diversa36.
La perfezione di una mediazione evocativa, intesa in quanto perfezione possibile e perciò stesso unicamente ‘mitica’, non si trova dunque oltre la natura, non vale a dire prima o più in alto degli svariati attributi qualitativi di un oggetto, ma alla base di essi. È semplicemente ciò che permette all’oggetto di essere partecipabile e di lasciarsi partecipare, ovvero è l’atto mediante il quale esso acquisisce la capacità di compendiare ogni altra realtà circostante, sia essa disgiunta, contrapposta o apparentemente incomunicante. La perfezione dell’arte, pertanto, non vale come proprietà dell’oggetto, ma come possibilità d’integrare certe sue proprietà con quelle di altri oggetti e di altre realtà. Il mito, valutato a partire da una simile considerazione, rappresenta tutto quanto nel nostro agire e pensare quotidiani si concretizza traducendosi in un’incognita, in un quesito, in un’ulteriore problematicità. È l’insorgenza del problematico. Trasportato nel movimento strutturale dell’esistenza, il mito può pertanto essere descritto come l’indeterminazione problematica che costituisce il momento iniziale di ogni atto esistenziale dell’ente. Mito infatti è ciò che si mostra allorquando i nostri progetti e i nostri ambiti conoscitivi sembrano essersi determinati e aver espletato la propria funzione in modo definitivo, non solo irreversibile ma completo, e invece poi subito, spontaneamente, proprio perché giunti alla realizzazione di sé, si smentiscono e riaprono il processo. Il mito perciò, entrando nel circolo strutturale della ragione, non può essere descritto come una specie di ur-simbolo, quanto piuttosto come forma utopica di una dissoluzione del simbolo, di una parafrasi non consecutivamente parafrasabile, di un trasferimento del segno mediativo dal proprio all’improprio, dal meccanismo causale al salto assoluto, in linea con quelle che Quintiliano chiamava «similitudini insospettate»37, prologo di nuove complessità e sigillo di altrettanti conflitti.

Il mito non ha e non concede alcun valore, non dice non spiega e non insegna nulla: per questo esso ha valore, per questo esso dice, spiega e insegna. Ne segue che vano ed equivoco è cercarvi qualcosa di assoluto, qualcosa che presto o tardi possa rendersi categoriale o definito una volta per sempre. Il mito non è risolutivo di alcuna idea o concetto, ma descrive l’attimo intrinseco in cui essi entrano in crisi e svaniscono. Ora, e da ora mai più: è tutto quanto sa dirci. Di fronte a esso non è possibile credere, si è costretti a dubitare. Esso è tutto ciò che si finge, tutto ciò che ci provoca restando nell’ombra, ciò che si contrappone al pensiero e non vi si risolve. Il mito quindi non ha lo scopo di abbellire, unificare o perfezionare le creazioni dell’arte, ma solo di ricondurle, nel loro stesso costituirsi concreto, all’indeterminato dell’essere, al momento iniziale di una struttura esistenziale moderativa del sapere pratico. Sembra perciò, nel suo complesso, che il mito abbia funzioni e validità di tipo “catartico”, in senso specificatamente abbagnaniano38, e che quindi sia di fondamentale importanza per l’oggettivazione sensibile della mediazione. Esso ha l’incarico arditissimo - e non sostituibile - di stemperare e distruggere l’apparenza mediante le apparenze, la finzione mediante le finzioni, la fugacità mediante le fugacità. Per una ragione mitica coerente, ne segue, il mito è e deve rimanere del tutto privo di spiegazione propria, del tutto innecessitato a trarre giustificazioni dai propri atti, emblema profondo di un anelito donchisciottesco. Appunto in questo suo singolarissimo manifestarsi, esso non ha niente di futile nell’essere gratuito, nulla d’insensato nel rimanere inconcepibile. Esso, smentendosi, ci accusa, ci richiama a noi stessi. Esige l’inosato, l’impensato, il non valutato, tutt’altro che assolvendoci ma anzi richiamandoci con forza ai compiti della vita. Comprendere fino in fondo questo limite incolmabile ma potentissimo del mito, sarà un buon inizio per comprendere anche il principio della nostra esistenzialità strutturale, e per accordarci al suo movimento fondamentale.
                                                                                                                                                                                                                              Silvio Paolini Merlo
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NOTE
1 E. PACI, Esistenzialismo e letteratura, in L. ROGNONI, E. PACI, L’espressionismo. L’esistenzialismo, “Etichette del nostro tempo”, “Saggi”, 6, Edizioni Radio Italiana, Torino 1953, p. 164.
2 N. ABBAGNANO, Il mito, in ID., Per o contro l’uomo, Rizzoli, Milano 1968, pp. 260-264; si veda inoltre Ottimismo e pessimismo, in ID., cit., pp. 151-154.
3 Alludiamo a H. BLUMENBERG, Arbeit am Mythos, Frankfurt A. M. 1979, trad. it. Elaborazione del mito, “Collezione di testi e di studi. Filosofia”, Il Mulino, Bologna 1991, e a L. KOLAKOWSKI, Obecnosc mitu, Institut Littéraire, Paris 1972, trad. it. di P. Kobau (dall’ed. tedesca, München-Zürich 1973) Presenza del mito, “Intersezioni”, 102, il Mulino, Bologna 1992. Va ricordato inoltre il monumentale C. LÉVI STRAUSS, Mythologiques, 4 voll., Plon, Paris 1964-1971, tr. it. Mitologica, il Saggiatore, Milano 1966-1974.
4 N. ABBAGNANO, La pace: mito e realtà, in ID., cit., p. 251.
5 N. ABBAGNANO, Il mito, cit., p. 264.
6 N. ABBAGNANO, L’appello alla ragione e le tecniche della ragione, in ID., Possibilità e libertà, Taylor, Torino 1956, pp. 83 e 86 ss.
7 È pertanto possibile, chiarisce Abbagnano, «distinguere, dal punto di vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello del M. come di una forma attenuata di intellettualità; 2° quello del M. come una forma autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come strumento di controllo sociale» (cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Seconda ed. riveduta e accresciuta, Utet, Torino 1971, voce «Mito», p. 586).
8 N. ABBAGNANO, Il mito, cit., p. 263.
9 Richiamandosi alle moderne teorie sociologiche di James G. Frazer e Bronislav Malinowski, nonché a quelle etnico-antropologiche di Claude Lévi-Strauss, Abbagnano sottolinea che il mito «non è definito nei confronti di una determinata forma dello spirito, per es., dell’intelletto o del sentimento […], ma rispetto alla funzione che compie nelle società umane: funzione che può essere chiarita e descritta in base a fatti osservabili» (cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, cit., p. 588).
10 N. ABBAGNANO, Il mito, cit., p. 263. 
11 Di L. KOLAKOWSKI, cit., si veda l’introduzione all’ed. italiana di Roberto Esposito, pp. 16 ss.
12 Dell’arte quale simbolo e quale espressione mediata del conoscere creativo, Abbagnano già discute ne Il problema dell’arte, Perrella, Genova-Napoli-Città di Castello 1926, in termini affatto analogici a ciò che poi, con La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino 1939, ora in Scritti esistenzialisti, a cura di B. Maiorca, Utet, Torino 1988, pp. 57-227, e specialmente con L’arte e il ritorno alla natura, “Archivio di Filosofia”, XI, 1941, 3, pp. 307-320, in seguito compreso nell’Introduzione all’esistenzialismo, Bompiani, Milano 1941, recentemente riedito da il Saggiatore, Milano 2001, diverrà il tema della “struttura” in ambito di analitica esistenziale. L’arte, in altri termini, è forma finale di un movimento strutturale (intrinseco e costitutivo) del pensiero, o meglio è quella forma per cui il pensiero si esprime e si dichiara nella propria disunità, nella propria dilacerazione, nella propria fallibilità intrascendibile, nel proprio movimento di ritorno per cui, affermandosi, ripristina l’indeterminato da cui sorge e si ritratta. La sua simbolicità, in questo modo, non è contemplazione cosmica di un’integrità ideale tra forme spirituali alla maniera crociana, ma espressione evocativa di un accrescersi vitale che scuote ogni nostro sapere. Se nel pensiero conoscitivo il simbolo è tutto ciò che si distacca dal mondo sensibile della vita e, pur seguendo il suo corso, si trasforma ovvero tende a trasformarsi in “proiezione logica”, in “sintesi apparente”, in “volontà creatrice di vita” (cfr. N. ABBAGNANO, Le sorgenti irrazionali del pensiero, con pref. di A. Aliotta, Perrella, Genova-Napoli 1923, pp. 165 e 168), nel pensiero che immagina e media evocativamente, nel pensiero perciò “mitico”, il simbolo compie invece il percorso opposto: presuppone la conoscenza nel suo valore simbolico e quindi la ritrasporta alla vita
13 N. ABBAGNANO, Arte, linguaggio, società, in ID., Possibilità e libertà, cit., pp. 183 ss.
14 N. ABBAGNANO, Questa pazza filosofia ovvero l’io prigioniero, Editoriale Nuova, Milano 1979, p. 6.
15 N. ABBAGNANO, La saggezza della vita, Rusconi, Milano 1985, p. 78.
16 Ivi, p. 75.
17 N. ABBAGNANO, Un consiglio: sognate a occhi aperti, ivi, pp. 121-122, passim.
18 N. ABBAGNANO, Arte, linguaggio, società, cit. pp. 176-181.
19 Ivi, pp. 178 e 180.
20 Vedi in G. DORFLES, L’estetica del mito da Vico a Wittgenstein, “Gum Saggi”, Nuova serie, 174, Mursia, Milano 1990, Cap. IX (“Mito e ragione”), pp. 142 ss. A voler meglio cogliere certa parte dell’orientamento critico contemporaneo condotto limitatamente a una ricerca sulle specifiche «forme del concetto» che sono alla base dei sistemi di classificazione totemici, di credenze astrologiche e concezioni magiche in generale, specie in previsione di una loro unificazione e articolazione linguistica, attuabile tanto nell’arte come nella scienza, sarà utile consultare E. CASSIRER, Mito e concetto (due lezioni), a cura di R. Lazzari, La Nuova Italia, Firenze 1992.
21 Nel linguaggio abbagnaniano, una situazione operativa qualunque si intende “sistatica” quando realizza l’unità propria del simultaneo e co-organico rapporto fra una certa serie di elementi di cui essa è parte, e alla costituzione dei quali essa è tenuta a partecipare. Si veda in Il principio della metafisica, Morano, Napoli 1936, §§ 27-30, e in La struttura dell’esistenza, cit., §§ 36-42.
22 Pensiamo qui a N. ABBAGNANO, La filosofia di E. Meyerson e la logica dell’identità, Perrella, Napoli 1929, alludendo in preferenza ai §§ 11-16, pp. 16-26.
23 E. PACI, cit., pp. 165-166 ss.
24 N. BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944, in part. il Cap. IV (“Motivi decadentistici dell’esistenzialismo”), pp. 51-53, passim.
25 Ibidem.
26 In realtà, per quanto Abbagnano non ne faccia menzione, a queste determinazioni estetiche della ragione mitica se ne è sempre accompagnata una quarta: quella della “grandezza”, in quanto esaltazione di un’insuperabilità dell’espressione. È questo, in pratica, l’antico problema del rapporto stretto tra arte e retorica, tra pienezza mediativa e gestualità rituale, per il quale rinviamo ad altra sede.
27 Per un’“estetica del possibile” in Abbagnano si veda in O. BORRELLO, Il possibile e l’autentico nel pensiero estetico moderno, in “Rassegna di Scienze Filosofiche”, XII, 1, 1959, pp. 42-59.
28 Riferendo dell’arte dadaista ne L’arte del caso, in N. ABBAGNANO, Per o contro l’uomo, Rizzoli, Milano, 1968, p. 290, rispetto alle correnti venute dopo, Abbagnano aggiungeva a maggiore conferma che la stessa primitiva certezza di poter affrontare vittoriosamente il caso e di poterne utillizzare gli effetti «per esiti felici» è del tutto sparita dall’arte contemporanea.
29 N. ABBAGNANO, L’eclisse del sublime, in ID., cit., p. 276.
30 Ivi, pp. 276-277.
31 N. ABBAGNANO, Arte, linguaggio, società, cit., pp. 187-189, passim.
32 Ivi, p. 188.
33 Ivi, pp. 184 ss.
34 N. ABBAGNANO, Ipotesi contraddittorie sull’arte, in ID., Fra il tutto e il nulla, Rizzoli, Milano 1973, p. 140.
35 N. ABBAGNANO, Arte, linguaggio, società, cit. p. 185.
36 N. ABBAGNANO, Ipotesi contraddittorie sull’arte, cit., p. 142.
37 E. GRASSI, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, tradotto dal tedesco a cura di L. Croce e M. Massari, Guerini, Milano 1989, Cap. II (“La metafora”), pp. 195 ss.
38 Scriveva Abbagnano che l’arte è “catartica” nella misura in cui offre all’uomo la possibilità di realizzarsi come unità, come autodisciplina e come solidarietà coesistenziale: in questo senso la catarsi è «la purificazione dalla preoccupazione dispersiva e dal complesso delle passioni in cui essa si determina, perché è il concentrarsi dell’uomo in una passione che sa veder chiaro in sé, nel mondo e negli altri ed è in grado di realizzare in opere tale chiarezza» (N. ABBAGNANO, L’arte come problema esistenziale, “Prospettive”, VI, 34-36, 1942, p. 16)