BOBBIO N.

Discorso su Nicola Abbagnano

in N. Abbagnano, Scritti scelti (a cura di G. De Crescenzo e P. Laveglia), Taylor, Torino, 1967, pp. 9-38. - 1967

La risposta di Nicola Abbagnano

La risposta di Nicola Abbagnano

Signor Sindaco, Autorità, cari concittadini,
perdonatemi in primo luogo se in questo momento io mi sento, oltre che commosso, anche imbarazzato: un filosofo è naturalmente abituato, per le necessità del suo mestiere, più al clima polemico delle discussioni che a quello della simpatia e dell'accoglienza cordiale. Ma di questa simpatia e di questa accoglienza vi sono profondamente grato e sono particolarmente grato al nostro Sindaco che ha voluto organizzare questa cerimonia e che nell'inaugurarla ha voluto ricordare con parole così affettuose anche la mia famiglia e specialmente la figura di mio padre. Da questa città che egli guida con tanta saggezza e energia sulle vie di una civile prosperità, io sono restato lontano molti anni. Ma da essa, dalla mia famiglia, dalle scuole, dai primi amici ho ricevuto e conservato le doti che mi hanno consentito di portare avanti la mia vita e il mio lavoro: l'amore disinteressato della cultura, la tenacia ("capatosta") e la serenità dello spirito, senza la quale nessun lavoro efficace può essere iniziato e condotto a termine. E poiché sono in tema di riconoscimento di debiti, permettetemi anche, in questo momento, in cui mi sento riscaldato dalla stima e dall'affetto dei miei Concittadini, di rivolgere un saluto alla città di Torino, di cui Norberto Bobbio è uno dei figli più illustri, che da molti anni mi ha accolto e in cui ho trovato discepoli e amici carissimi nonché aiuti di ogni genere e in ogni classe sociale nei difficili momenti che ho attraversato.
Come risposta all'affettuosa manifestazione di stima, che avete voluto darmi, mi propongo di illustrarvi nel modo più semplice, come si conviene ad una conversazione tra amici, il compito che ritengo proprio della filosofia, il compito al quale ho dedicato la mia attività negli anni passati e intendo dedicare il tempo della vita che ancora mi resta.
Questo è oggi un tema di attualità perché le profonde, radicali trasformazioni tecnologiche, sociali e culturali, che sono in corso nella nostra società e investono l'intero genere umano, mettono in crisi le forme tradizionali della filosofia. La filosofia è certo qualcosa di "eterno" perché risponde al bisogno dell'uomo di conoscere se stesso e il mondo in cui vive e di progettare la sua vita sulla base di questa conoscenza. Ma i modi in cui essa si realizza non sono eterni perché condizionati dalle forme storiche che la civiltà assume nel tempo. Pertanto il primo compito del filosofo è quello di rendersi conto delle trasformazioni storiche in atto per prendere coscienza dei compiti che tali trasformazioni pongono alla filosofia e degli strumenti che ha a disposizione per affrontarli.
La prima e più evidente trasformazione che il mondo moderno va subendo sotto i nostri occhi consiste nella crescente solidarietà che si va realizzando fra tutti i popoli della terra. Si tratta, certamente, di una solidarietà di fatto, che non evita, anzi rende più probabili, urti, lotte, conflitti e pericoli ancora maggiori. Ma gli stessi mezzi tecnici che consentono agli uomini di andare passeggiando negli spazi interplanetari, rendono illusoria ogni loro pretesa di chiudersi nel guscio del loro territorio o della loro cultura. Non c'è oggi popolo o nazione, piccola o grande, che possa isolarsi dal resto del mondo. Ciò che accade nel più piccolo e insignificante stato africano, può avere ripercussioni decisive sulla vita, la prosperità e la pace di tutte le altre nazioni del globo. La civiltà e la ricchezza di certi popoli, che hanno raggiunta una condizione privilegiata, possono essere minacciate dalla fame e dalla violenza di popoli lontani e apparentemente estranei. In questa condizione, la filosofia si trova coinvolta nella stretta di esigenze contrastanti; da un lato essa, come opera di un fìlosofo o di un gruppo di filosofi, appartiene sempre a una determinata forma di cultura e utilizza il sapere e gli strumenti concettuali che questa cultura le offre. Nel nostro mondo occidentale, ad esempio, la scienza, la tecnica, le discipline filologiche e storiche, la tradizione religiosa e la stessa tradizione filosofica offrono alla filosofia i mezzi di cui dispone e, in parte almeno, le prescrivono gli orientamenti che può assumere. Ma dall'altro lato una filosofia, oggi, deve poter essere intesa, valutata ed eventualmente accettata da tutti gli uomini in quanto tali. A quale condizione deve rispondere per obbedire a questo compito?
Nonostante che le opere dei filosofi greci e specialmente di Platone e di Aristotele siano state una fonte inesauribile di ispirazioni filosofiche e probabilmente continueranno ad esserlo, non bisogna dimenticare che essi muovevano dal presupposto che la filosofia, e in generale la ricerca scientifica è propria degli uomini liberi, che sono in piccolo numero, e che perciò essa non riguarda la maggior parte del genere umano che è formata di schiavi, cioè di individui incapaci di attività intellettuali superiori. La distinzione tra liberi e schiavi, i primi destinati alla speculazione e al dominio politico, i secondi, incapaci dell'uno e dell'altro e destinati solamente al lavoro manuale è, secondo i Greci, stabilita e voluta dalla natura stessa ed è ineliminabile come quella che c'è tra l'uomo e la donna o tra il giovane e il vecchio. Raramente, nella filosofia occidentale, questa credenza dei Greci è stata assunta e difesa esplicitamente. Ma spesso, implicitamente, i filosofi si sono presentati come profeti di una minoranza privilegiata e hanno parlato soltanto per essa e di essa. Ciò è accaduto soprattutto quando i filosofi hanno insistito sul carattere puramente contemplativo della filosofia. Secondo una tradizione riportata nelle Tuscolane di Cicerone, Pitagora paragonava la vita umana alle grandi feste che si tenevano a Olimpia o in altre città della Grecia dove alcuni andavano per affari, altri per partecipare alle gare, altri per divertimento e infine alcuni soltanto per vedere ciò che accadeva. Solo questi ultimi, secondo Pitagora, erano i filosofi. Che la ricerca filosofica escluda e renda insignificanti tutte le altre attività cui l'uomo dedica la sua vita quotidiana, e perciò sia proprio soltanto di quegli esseri privilegiati che hanno la capacità e i mezzi per dedicarsi alla pura contemplazione della vita, senza partecipare alla vita stessa, è stato il presupposto di molte filosofie. Anche oggi la fenomenologia di Husserl, ad esempio, ritiene che la filosofia si possa fare soltanto dal punto di vista di uno spettatore disinteressato che vede scorrere davanti a sé il fiume della vita ma non s'immerge mai in esso e non ne viene mai travolto. Ma, se è così, filosofare significa estraniarsi dalla vita di ogni giorno e dall'umanità e abbandonare al loro destino tutti quelli che non hanno l'agio o la capacità di trasformarsi in puri occhi del mondo. Contrariamente a quanto comunemente si crede, la smentita di questo punto di vista è stata data da Platone: il quale voleva bensì che i filosofi non si lasciassero ingannare dalle apparenze sensibili delle cose e ne cercassero la vera sostanza; ma esigeva pure che essi ponessero i risultati della loro ricerca al servizio degli uomini e contribuissero con questo a rendere il mondo più giusto e più felice. Questo fondamentale insegnamento platonico (che può essere agevolmente scisso dall'utopia, cui Platone stesso indulse, di una repubblica perfetta governata da filosofi), dev'essere oggi ritenuto di piena attualità. Quali che siano gli indirizzi o le vie che la ricerca filosofica può prendere, è indispensabile che essa non sia considerata il patrimonio d'individui privilegiati, separati dalla comune umanità da una radicale diversità di interessi, ma appartenga, potenzialmente almeno, a tutti gli uomini in quanto tali, e a tutti possa offrire qualche aiuto per la soluzione dei problemi fondamentali della vita.
La filosofia mira oggi pertanto ad una duplice universalità. Da un lato all'universalità che consiste nello svincolarsi dalle tradizioni culturali specifiche e nella possibilità di rivolgersi efficacemente a qualsiasi uomo, a qualsiasi tipo di cultura appartenga: e dall'altro lato, all'universalità che deriva dall'evitare la contrapposizione tra filosofi e non filosofi, sicché essa possa rivolgersi a qualsiasi uomo che voglia affrontare con consapevolezza i problemi di fondo che si celano anche nella più stretta routine dell'esistenza quotidiana. Ma che questa duplice universalità s'imponga oggi come esigenza fondamentale di ogni ricerca filosofica, non significa che sia facile realizzarla. Non basta, per realizzarla, che il filosofo pretenda di parlare in nome della Ragione o dello Spirito (con le iniziali maiuscole) o dell'Assoluto o dell'Essere o di altro che sia, e che assuma atteggiamenti profetici, presentandosi come l'unica voce di una Verità che gli altri uomini debbono solamente accettare e seguire. Anzi è proprio questo atteggiamento che rende impossibile la funzione universalmente umana della filosofia. Se un filosofo mi dice: "Questa è l'intera assoluta verità: accettala e taci", io sono posto di fronte ad una alternativa che, comunque risolta, mi esclude dall'attività filosofica vera e propria. Giacché, se accetto quella pretesa verità, mi rendo passivo di fronte ad essa e rinunzio a servirmi dei miei poteri critici, della mia iniziativa di ricerca e sono con ciò fuori della filosofia; e se la rigetto totalmente, come totalmente mi viene presentata, essa non ha per me alcun insegnamento, né positivo né negativo. La filosofia non può pronunziare, come la moglie bisbetica di Giovenale, un sic volo sic jubeo. La filosofia ha la sua radice nel dubbio e nell'iniziativa di ricerca della persona umana, nella meraviglia che coglie in certi istanti ogni individuo di fronte a certi aspetti anche banali della vita, meraviglia che gli fa chiedere: perché? Perché è cosi e non altrimenti? Dubbio, spirito indagatore, meraviglia, non sono propri soltanto di individui privilegiati; sono possibilità aperte a ciascun uomo in quanto tale. E' ovvio che ciascun uomo può trovare, nella parola di un filosofo, una risposta ai suoi dubbi, una guida per la sua riflessione e uno stimolo per la sua meraviglia. Ma l'importante è che non accetti nulla passivamente, non si faccia strumento dell'altrui pensiero e dell'altrui verità, o per dirla con il linguaggio corrente, non alieni da sé il compito specifico dell'uomo di comprendere se stesso e il mondo in cui vive, delegandolo ad altri. Nessun uomo, io credo, dovrebbe accettare questa delega e nessun uomo dovrebbe darla. Non si può pensare o ragionare per delega. Nella cerchia ristretta dei filosofi di professione si dibattono, certo, problemi che, a un certo stadio della loro elaborazione tecnica, sono accessibili solo ai competenti. Ma se si tratta di problemi autentici e autenticamente filosofici, la portata di questi problemi, il significato che hanno per l'uomo, deve poter essere inteso e fatto proprio da ciascun uomo e ciascun uomo deve avere il diritto di accedere ad essi e assumere posizione. Platone diceva che la filosofia non è solo possesso di un certo sapere ma consiste soprattutto nel conoscere l'uso che bisogna fare del sapere che si possiede. Vediamo che cosa questo significa in un esempio particolare. Pochi, certamente, di fronte al complesso dell'umanità, sono gli scienziati che conoscono i procedimenti per produrre l'energia atomica. E' abbastanza ovvio che questa, come ogni altra competenza specifica, dev'essere ristretta a un gruppo limitato di persone. Ma quando si parla dell'uso che si può e deve fare delle conoscenze di cui disponiamo in quel campo e della stessa energia atomica: se per esempio essa deve essere diretta a dominare l'umanità o a liberarla, alla pace o alla guerra, alla distruzione del genere umano o all'arricchimento dei suoi poteri e delle sue capacità, tutti gli uomini hanno e devono avere la possibilità di pronunziarsi. Questo problema non concerne più soltanto la cerchia ristretta degli scienziati competenti perché coinvolge il destino di tutto il genere umano. E l'atteggiamento che di fronte a quel problema può assumere un qualsiasi uomo della strada non ha minor valore di quello di un Einstein o di un Fermi, perché quel problema ha la stessa portata, lo stesso significato per tutti. I problemi fondamentali della filosofia sono di questa natura: coinvolgono tutti gli uomini in quanto tali, concernono il significato, il destino della vita umana nel mondo e ogni uomo dovrebbe poterli affrontare con chiarezza d'idee e senso di responsabilità.
Che cosa possono fare i filosofi per dare alla loro ricerca questa impronta di universalità umana, questo carattere di dignità e di libertà che la renda aperta e accessibile a tutti gli uomini di buona volontà? In primo luogo, devono tener conto del pluralismo degli orientamenti che la ricerca filosofica può assumere e delle diversità, talora irriducibili, dei risultati cui essa può condurre. Questo è il preliminare e indispensabile compito storico. La storia della filosofia non è lo sviluppo progressivo di un'unica filosofia che da un capo all'altro di essa si sia venuta progressivamente affermando e sviluppando; non è neppure un caos di opinioni diverse e cervellotiche che si urtano e si accavallano senza costrutto; e non è neppure alcunché di mezzo tra l'una e l'altra cosa. Essa è fatta di scuole, di indirizzi, di personalità che fanno un certo cammino in comune e poi si dividono; di polemiche e di contrasti che hanno almeno in comune un problema; di problemi diversi che si intersecano e si condizionano variamente tra loro. Come ogni altra attività umana, è un campo di convergenze e divergenze, di accordi e di dissensi, di collaborazioni e di lotte. L'indagine storica della filosofia serve a chiarire questi aspetti e a dare il quadro della ricchezza e varietà delle possibilità di filosofare: ricchezza e varietà in cui si riflettono la ricchezza e la varietà dei progetti che l'uomo può fare della vita individuale e associata, cioè dei modi in cui può atteggiarsi di fronte a se stesso, di fronte mondo e di fronte a Dio.
In secondo luogo, la filosofia deve autenticare i suoi problemi nel senso che deve accertarsi che i problemi che affronta non sono fittizi, non prendono origine da malintesi concettuali o verbali, da presupposti nascosti ma fallaci, da forme di mentalità o di tradizione che hanno perso il loro valore. E il solo modo di autenticare i problemi filosofici è quello di formularli in relazione ai risultati raggiunti negli altri campi del sapere umano cioè dalle altre scienze che costituiscono l'universo culturale di oggi. Certo, la filosofia non può avere solo il compito, che il vecchio e il nuovo positivismo le attribuiscono, di elaborare i risultati delle scienze e di vivere, parassitariamente, in dipendenza di essi. Ma che si può dire di una filosofia che, per esempio, considerando il problema della natura e dei limiti della scienza, si riferisca al concetto che della scienza aveva Aristotele e trascuri le trasformazioni radicali che la scienza stessa ha subito da Galileo a oggi? Dovremo dire che essa affronta un problema mal posto perché la scienza di cui essa parla non esiste più. Autenticare i problemi significa tener conto dei dati fondamentali e aggiornati di cui il nostro sapere dispone nel campo cui il problema si riferisce. Significa altresì tener conto di questi dati per quello che valgono, cioè non scambiare i più certi con i meno certi, le ipotesi con i fatti e i fatti con le fantasie avveniristiche.
In terzo luogo, la filosofia deve elaborare i suoi problemi nella forma concettuale più rigorosa ed evitare slittamenti nell'approssimativo, nel fantastico, nell'oratorio. La filosofia deve trovare la sua tecnica, per quanto non possa né debba trattarsi di una tecnica per iniziati. Essa non ha bisogno di allettamenti retorici, di forme smaglianti di discorso, di immaginazioni poetiche. L'interesse che essa è diretta a suscitare è di natura diversa e può essere affidato soltanto a concetti chiari, rigorosi e senza sbavature.
Lo scopo della filosofia non è quello di persuadere cioè di ricorrere alla mozione degli affetti per suscitare credenze inconsulte, entusiasmi, fanatismo; ma quello di fare appello ai poteri razionali dell'uomo e di suscitare in lui riflessioni e convinzioni ragionevoli. La via della persuasione non dà in filosofia alcun affidamento e non possiede alcuna universalità. Essa deve infatti far leva su stati d'animo già esistenti, su emozioni che già sono radicate in quella cerchia di persone cui si rivolge. Ma gli stati d'animo e le emozioni sono diversi da un gruppo umano all'altro e non possono essere resi universali o comuni. Le tecniche razionali sono invece, per loro natura, oggettive: possono quindi, esse sole, dare al lavoro filosofico l'indispensabile universalità.
L'impostazione storiografica, l'autenticazione dei problemi e la loro elaborazione mediante rigorose tecniche razionali, sono gli aspetti inscindibili delle risposte che la filosofia può dare alle domande che la società moderna le rivolge. A dispetto di ogni previsione, queste domande divengono ogni giorno più numerose e pressanti. La divisione del lavoro scientifico, la prevalenza della tecnica, l'industrialismo, le comunicazioni di massa non tendono, come pareva, a indebolire il bisogno della filosofia e l'interesse per essa, ma piuttosto a forzarli e ad estenderli. In certe fasi o a certi livelli della loro attività scienziati, tecnici, uomini d'affari, uomini politici, sono portati a rivolger oggi alla filosofia domande cui non sempre essa è in grado di rispondere. Una grande responsabilità incombe oggi su questa disciplina che ha accompagnato e sorretto l'uomo sin dai primordi della civiltà. Una responsabilità che non può cadere sulle spalle di un solo filosofo, ma richiede piuttosto il lavoro e l'impegno di molte generazioni di filosofi: un lavoro non collettivo e spersonalizzato ma personalizzato, originale e tuttavia alieno da antagonismi polemici e diretto più realizzare una collaborazione che a dar luogo a battaglie ideologiche. A questo lavoro, ricco di responsabilità e di rischi ma che ha perso l'alone romantico della profezia, ho cercato di dare contributo nel corso della mia vita e cercherò di darlo per quanto mi è ancora concesso. E se questo contributo non sarà stato inutile, riterrò che la mia vita è stata bene spesa al servizio della filosofia.
                                                                                                                                                                                                                                Nicola Abbagnano