MORI M.

Nicola Abbagnano (1901 - 1990): una filosofia del finito

in AA.VV., Le due Torino. Primato della religione o primato della politica?,pp.135-148, a cura di Gianluca Cuozzo e Giuseppe Riconda, Trauben, Torino, 2008 - 2008

Nicola Abbagnano (1901-1990): una filosofia del finito

 
 
Nicola Abbagnano (1901-1990): una filosofia del finito
 
Nel presentare Nicola Abbagnano nel quadro di un ciclo di relazioni dedicate a Le due Torino: Primato della religione o primato della politica? c’è qualche motivo di imbarazzo. È infatti molto difficile ascrivere il pensiero di Abbagnano a una delle due possibilità alternative. Sin dalla Introduzione di una delle sue prime opere, Il principio della metafisica del 1936, egli rivendica infatti “la possibilità di una speculazione autonoma” sia rispetto alle scienze sia rispetto alla prassi, e quindi non solo alla morale, ma anche alla politica e alla religione.1 Ed egli manterrà fede per tutta la vita a questo principio, per quanto il suo pensiero si sia andato ampiamente evolvendo dalle tesi generali sostenute in quell’opera. Nella commemorazione del 1990 Norberto Bobbio ricordava come Abbagnano anche negli ultimi anni avesse continuato a occuparsi di problemi di teoria e di etica, osservando però (o lamentando) che si trattava “molto più di etica che di politica”.2 Il discorso sulla religione è forse un po’ più complesso, per cui converrà ritornarvi, ma in ogni caso Abbagnano non abbandonò mai la rivendicazione della assoluta laicità della ricerca filosofica. Si potrebbe pensare allora che, se di “primato” occorre parlare, esso debba essere attribuito non alla politica né alla religione, ma alla filosofia stessa. Ma anche questo sarebbe scorretto. Se ha sempre difeso l’autonomia della ricerca filosofica dalle altre sfere della vita spirituale dell’uomo, Abbagnano non ne ha mai sostenuto né l’autarchia né tantomeno la supremazia. In aperta polemica con la tradizione idealistica (e non solo idealistica), egli ha negato alla filosofia una funzione specificamente conoscitiva, che riservava alla scienza, attribuendo all’indagine filosofica il più modesto compito di esprimere una saggezza pratica fondata sulla considerazione esistenziale dell’uomo. In questo modo non solo l’ambito di esercizio legittimo della filosofia appare circoscritto, ma la riflessione filosofica fa necessariamente riferimento a una situazione umana oggettivamente condizionata. La filosofia di Abbagnano può quindi essere definita, in termini approssimativi, come una “filosofia del finito”, in cui la finitezza investe tutti gli aspetti dell’attività filosofica. Innanzitutto l’oggetto del filosofare, che è sempre l’uomo considerato nella concretezza della sua situazione, con i tutti i limiti che essa comporta. In secondo luogo, lo strumento del filosofare, che è una ragione problematica, la quale riflette la condizionatezza e l’instabilità della condizione umana. In terzo luogo, l’esito del filosofare, che, pur dischiudendo a sempre nuove possibilità, non fornisce mai certezze assolute né soluzioni definitive.
A questa filosofia del finito rispondono entrambe le esperienze filosofiche che Abbagnano attraversa nel periodo postbellico. Il primo, forse più originale contributo che egli fornisce al pensiero italiano del Novecento, è costituito dalla sua peculiare versione dell’esistenzialismo, che nel dopoguerra, per distinguerlo dagli esistenzialismi d’oltralpe, non solo tedesco ma anche francese, egli chiamerà “esistenzialismo positivo”. L’articolazione teoretica della filosofia dell’esistenza di Abbagnano risale però al decennio compreso tra la fine degli anni ’30 e quella degli anni ’40. La sua formulazione è affidata a opere come La struttura dell’esistenza del 1939, Introduzione all’esistenzialismo del ’42 e Esistenzialismo positivo. Due saggi del ’48.3 Il riferimento iniziale è ovviamente Heidegger e, in forma più defilata, Jaspers; ma dopo la pubblicazione di L’essere e il Nulla, anche Sartre, seppure, in quest’ultimo caso, in termini quasi esclusivamente negativi. E’ stato detto, e con ragione, che La struttura dell’esistenza è quasi una “riscrittura” di Essere e tempo di Heidegger.4 Effettivamente molti temi del libro di Abbagnano riecheggiano quelli heideggeriani: la centralità del problema ontologico, la definizione dell’uomo in termini di esistenza, il rapporto tra esistenza ed essere, la temporalità come condizione esistenziale, la relazione tra l’uomo e il “mondo”, la rilevanza del tema della morte, e soprattutto l’alternativa tra esistenza autentica ed esistenza inautentica. Ma sin dall’opera del 1939 Abbagnano prende le distanze da Heidegger proprio nella diversa concezione dell’opposizione tra esistenza autentica e inautentica, per definire la quale egli fa intervenire la nozione, recuperata dalla tradizione kantiana e neokantiana e assolutamente estranea alla fenomenologia heideggeriana, di “normatività”. L’ontologia heideggeriana si converte così in una filosofia della norma o, meglio, in una filosofia in cui l’essere con cui l’uomo è in rapporto in quanto ente si traduce in dover essere. L’esistenza autentica, che conferisce unità alla struttura dell’esistenza umana, individuando un elemento di continuità tra la situazione iniziale e il suo esito finale, è contrassegnata dall’“impegno totale”5 (Abbagnano usa il termine “impegno” molto prima di Sartre). L’esistenza inautentica, invece, è contrassegnata dalla “dispersione” della vita, che non consente di individuare un significato unitario dell’esistenza di un uomo o, più precisamente, la sua strutturazione. Diversamente che in Heidegger, esistenza autentica ed esistenza inautentica si contrappongono dunque in termini di valore positivo e valore negativo o, più semplicemente, valore e disvalore. Soltanto la prima consente l’emergenza della “possibilità garantita”,6 o “possibilità trascendentale”,7 o “possibilità della possibilità”. 8 In altre parole, soltanto la l’esistenza autentica fa sì che quella che nella situazione iniziale è soltanto una possibilità teorica dell’uomo diventi concretamente possibile, cioè possa effettivamente realizzarsi. Nell’esistenza inautentica, in cui l’uomo non realizza l’unità strutturale del suo esistere e si perde nella dispersione, le possibilità iniziali, non portando a nulla, si rivelano sostanzialmente delle impossibilità. Nel primo caso la possibilità si realizza come tale, come “possibilità della possibilità”; nel secondo si rivela impossibile, traducendosi nel fallimento, nello scacco, nella destrutturazione dell’esistenza.
Fin da La struttura dell’esistenza emerge così la centralità della categoria di possibilità nel pensiero di Abbagnano. Il possibile è contrapposto al necessario, ma è anche distinto dal “virtuale” e dal “contingente” che al necessario rimandano o dal necessario dipendono. Virtuale è infatti la “potenzialità in senso aristotelico”,9 che attende di tradursi necessariamente nell’“attuale”, di cui non è che una prefigurazione. Analogamente il contingente presuppone il necessario e dipende da esso. Invece il possibile è “ciò che può essere o non essere ed è solo come tale”.10 Una possibilità che presenta una natura intrinsecamente duplice: può essere tanto possibilità positiva, “possibilità-che-sì”, quanto possibilità negativa, “possibilità-che-non”. Kant è il filosofo della possibilità positiva, Kierkegaard quello della possibilità negativa. 11 La possibilità è tanto “possibilità della possibilità”, quanto “impossibilità della possibilità”. Tanto successo, quanto fallimento. L’aver visto soltanto la seconda alternativa è l’errore compiuto dall’esistenzialismo che Abbagnano denota come negativo, riferendosi in diversa forma sia a Heidegger (la possibilità come impossibilità), sia a Jaspers (la possibilità come scacco), sia a Sartre (la possibilità come nulla). Di conseguenza, egli definisce la sua posizione come “esistenzialismo positivo”, in cui l’elemento della possibilità, pur rimanendo aperto a ogni esito e conservando quindi interamente la sua dimensione problematica, si può tradurre in “possibilità della possibilità”, può essere una possibilità che si traduce in realizzazione.
Nell’esistenzialismo negativo, invece, si perde l’elemento essenziale della possibilità, chiaramente visto da Kierkegaard: la opposizione tra possibilità e necessità. Se non si concepisce la possibilità come possibilità del successo, oltreché ovviamente del fallimento, come possibilità-che-sì oltreché possibilità-che-non, la possibilità non è una vera possibilità. “Quando una di queste vie è chiusa, non c’è possibilità, ma determinazione necessaria”.12 Ma la necessità contro cui Abbagnano polemizza non è soltanto quella dell’esistenzialismo negativo. In realtà la maggior parte del pensiero contemporaneo si sviluppa all’insegna della necessità. Ciò vale per lo scientismo positivistico che, interpretando la realtà alla luce della necessità della legge naturale, depriva di significato qualsiasi manifestazione della realtà o dell’esistenza che non sia riducibile a una connessione necessaria di fatti. Ma vale anche per l’idealismo, nella forma classica assunta in Germania tra il XVIII e il XIX secolo come nel neo-idealismo italiano di Croce e Gentile o in quello angloamericano di Green, Bradley e Royce (cui Abbagnano aveva dedicato nel 1927 uno studio monografico giovanile)13: in ogni caso la necessità è quella imposta da una ragione assoluta intesa ora oggettivamente (come in Hegel, in Croce o in Royce), ora soggettivamente (come in Fichte e in Gentile), ma comunque sempre in termini assoluti, di modo che l’elemento dell’individualità viene determinato necessariamente dalla totalità e il fattore della casualità, della contingenza e della indeterminatezza viene risolto in una mera apparenza. La stessa libertà, in questa prospettiva, è soltanto libertà dell’assoluto, e l’individuo ne gode solo nella misura in cui partecipa a quella dell’assoluto. La condanna della necessità vale insomma per qualsiasi forma di “romanticismo”, una categoria storiografica usata da Abbagnano, anche nella Storia della filosofia, in modo molto più ampio di quanto farebbe pensare il semplice riferimento allo specifico movimento filosofico-letterario che porta questo nome e che, tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento (o prima o dopo a seconda delle periodizzazioni applicate), segna la contrapposizione culturale al razionalismo illuministico settecentesco. Romantica è per Abbagnano ogni filosofia che tenda a risolvere il finito nell’infinito; cioè ogni filosofia che non riconosca la realtà specifica, autonoma delle forme finite dell’esistenza, ma le consideri semplici manifestazioni individuali di un’unica realtà infinita, di un’unica legge che impera su tutto, di un’unica ragione onnipervasiva. 14
Attorno alla categoria fondamentale della possibilità si dipanano gli altri concetti peculiari della filosofia di Abbagnano: la problematicità, la scelta e la libertà, tutte conseguenze della “finitudine” dell’uomo. L’esistenza umana, in quanto finita, è indeterminata, non definita, instabile. A questo carattere indeterminato, secondo un insegnamento che Abbagnano trae tra l’altro dal pragmatismo di John Dewey, è indissolubilmente connesso l’elemento della problematicità. In una situazione in cui i termini non sono mai univocamente stabiliti, ma aperti a ogni possibilità di sviluppo, in senso positivo come in senso negativo, l’uomo deve continuamente affrontare problemi. Il che significa che egli deve continuamente scegliere: scegliere tra possibilità diverse, aperte al successo o alla sconfitta. La scelta è il momento esistenziale in cui l’uomo si sforza di determinare nella direzione voluta una situazione indeterminata. Di conseguenza l’esistenza è libertà, nel senso che l’uomo è libero di scegliere, di perseguire alcune possibilità che la situazione gli offre e di escluderne altre. Ma il problema è ovviamente soprattutto quello di scegliere bene. Qual è il criterio della scelta? Quali possibilità offerte dall’indeterminatezza della situazione sono veramente “possibilità della possibilità” e quali invece sono destinate a tradursi in impossibilità? Le possibilità che si devono scegliere – le “possibilità autentiche” – sono quelle che rafforzano e garantiscono la possibilità dell’uomo di intrattenere e sviluppare i suoi rapporti con il mondo.15 La “possibilità trascendentale” è quindi quella che rende possibili ulteriori possibilità, quella che permette di compiere ulteriori scelte, mantenendo la propria libertà. La ripetibilità della scelta è uno dei caratteri della sua razionalità: ma a questo scopo l’uomo deve riferirsi a alternative reali, a “possibilità già date, cioè inerenti alla situazione in cui la scelta si inserisce”.16 La possibilità trascendentale è quindi, in ultima analisi, la possibilità fondamentale in cui consiste l’esistenza stessa dell’uomo, la possibilità che gli consente di realizzare l’unità strutturale della sua esistenza, ovvero il compito che l’uomo si è dato come elemento che dà significato e unità alla sua vita. La possibilità che non si deve scegliere – la “possibilità inautentica” – è invece quella che si traduce in una impossibilità, quella dopo aver scelto la quale non è più possibile scegliere, perché si è finiti in un vicolo cieco e la libertà è annullata. Scelta e libertà, pur essendo costitutivi dell’esistenza umana, non sono quindi beni imperdibili. Essi devono essere coltivati e ricercati con un comportamento consapevole, perché altrimenti si traducono nel loro opposto, così come la possibilità mal gestita rischia di rivelarsi una impossibilità. La libertà non è assoluta, le scelte non sono infinite. L’una e le altre sono appannaggio di un essere finito come l’uomo, che le può valorizzare come sprecare.
Dal discorso che si è fatto emerge sempre più l’esigenza che le scelte che l’uomo è chiamato a fare e che costituiscono il sostrato della sua esistenza siano guidate da criteri condivisibili. L’uomo difatti vive in una società e l’interazione con i suoi simili entra nella determinazione della sua situazione, e quindi nella scelta delle possibilità. Le scelte che egli compie, per tradursi in possibilità autentiche, devono potersi intrecciare positivamente con le scelte che compiono gli altri individui, devono essere comprese e condivise. Non a caso nella Struttura dell’esistenza Abbagnano aveva connesso il discorso sull’impegno con quello sull’interrelazione degli individui o, meglio, nel linguaggio esistenzialistico, degli enti: l’esito era dunque un impegno si estendeva alla “costituzione di una comunità atta a realizzare la comprensione tra gli enti”.17 E poiché in quell’opera l’impegno dell’ente si traduceva nei termini heideggeriani della fedeltà al proprio “destino”, anche tale fedeltà non si limitava alla storia personale, ma coinvolgeva necessariamente il “destino dei popoli”, ovviamente il destino del proprio popolo. Questa dimensione comunitaria, troppo legata all’eredità heideggeriana e allo ‘spirito dei tempi’ in cui l’opera venne scritta, non esclusa l’incapacità da parte di Abbagnano di prendere sin da allora distanza dalla retorica populistica del fascismo, venne successivamente abbandonata, sicché nel dopoguerra l’impegno dell’individuo è concentrato sulla realizzazione della possibilità che egli è a se stesso. A un esistenzialismo che legava l’individuo alla comunità si sostituisce un esistenzialismo incentrato principalmente sull’individuo, anzi sul “singolo” kierkegaardiano. Ma l’esigenza dell’interindividualità come condizione della realizzazione della possibilità rimane. Il che vuol dire che i criteri della determinazione positiva della possibilità, come condizione di realizzazione dell’individuo nei suoi rapporti con gli altri individui, devono essere ricercati non in una comunità che, quasi una ipostasi sociale sovrapersonale, già fornisce il contenuto della comunicazione, ma in criteri che costituiscano la possibilità della comunicazione interpersonale attraverso un linguaggio comune e condiviso. Ciò conduce Abbagnano ad assegnare un progressivo valore a una funzione conoscitiva, argomentativa e comunicativa che non era mai stata di casa nelle costruzioni teoriche degli esistenzialisti e alla quale Abbagnano nella sua prima opera giovanile sulle Sorgenti irrazionali del pensiero aveva addirittura guardato con sospetto: la ragione. 18 La razionalità della scelta diventa condizione della efficacia di quest’ultima, non solo nel senso di rendere in sé autenticamente possibile la possibilità scelta, ma anche nel senso di produrne le condizioni di condivisibilità da parte degli altri che entrano in maniera sensibile nella determinazione di questa possibilità.
Questo spostamento di accento comportava la presa di distanza di Abbagnano dall’esistenzialismo, che non veniva considerato “morto”, ma “trasfigurato” in qualcosa di diverso.19 Viceversa egli si avvicinava piuttosto alla grande tradizione razionalistica dell’illuminismo, che, sin da un articolo del 1948, riteneva di veder rivivere in forma nuova (un “nuovo illuminismo” appunto) nel pragmatismo strumentale di Dewey,20 ma che accostava anche al positivismo logico e al suo proprio “empirismo metodologico”, considerato appunto l’esito della “trasfigurazione” dell’esistenzialismo. Ne nasceva il movimento del “neoilluminismo” che sotto l’impulso di Abbagnano e di Bobbio, raccolse l’adesione di trentasei esponenti della cultura filosofica italiana, tra cui Ludovico Geymonat, gli allievi milanesi di Banfi (Enzo Paci, Giulio Preti e Remo Cantoni), nonché la generazione più giovane rappresentata da Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano a Torino, Antonio Santucci, Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli a Bologna, Paolo Rossi e Uberto Scarpelli a Milano. Nella lettera di convocazione del primo dei nove Convegni che saranno il risultato più tangibile dell’attività del gruppo, Abbagnano si rivolge agli “studiosi italiani che si sforzano di orientare le loro ricerche fuori dalle tradizionali pregiudiziali di un necessitarismo metafisico o con rinnovate cautele rispetto a ogni forma di dogmatismo”. Si trattava quindi di definire “criteri comuni per un’interpretazione non metafisica della ricerca filosofica” e di applicarli “particolarmente ai rapporti tra indagine filosofica e ricerche scientifiche, come a quelli tra indagine filosofica e vita politica”.21 Nella Dichiarazione congiunta che concluse il primo Convegno il programma divenne ancora più generico: cadde il riferimento polemico alla metafisica, forse per volontà dello stesso Abbagnano, e si fece solo riferimento all’opportunità che la filosofia si aprisse “verso tutti i campi della cultura moderna” e si avvalesse dell’“uso delle ricerche e delle tecniche specifiche elaborate nei vari campi del sapere”.22 Ma malgrado l’esilità di questa cornice programmatica, la formazione filosofica degli aderenti era troppo eterogenea perché si potesse realizzare un’efficace e duratura collaborazione. Di conseguenza, il neoilluminismo visse per una breve stagione: ricordandone lo sviluppo e la fine in un convegno del 1973, Bobbio ammise che “la nuova occasione d’incontro creata dalla costituzione del gruppo neo-illuministico non ebbe né grandi né durevoli effetti”.23
Eppure l’esperienza neoilluministica è molto importante per delineare l’itinerario filosofico di Abbagnano. Innanzitutto è rilevante per definire la sua concezione della ragione, cui egli approdava – come si è visto – relativamente tardi, e con qualche cautela. Già negli scritti esistenzialistici Abbagnano aveva contrapposto ragione necessaria e ragione problematica. La ragione necessaria nega ogni normatività, poiché vede l’ideale già realizzato nell’assolutezza della realtà, dello spirito o della legge naturale. La ragione problematica interpreta la realtà in termini di possibilità, da un lato imponendo il dovere di realizzarla (se è una possibilità autentica), e dall’altro essendo consapevole del rischio del fallimento. Questa stessa concezione problematica della ragione viene ora richiamata per la fondazione “di quel nuovo illuminismo che da più parti si profila come l’ultima esigenza della filosofia contemporanea, un illuminismo che, smessa l’illusione ottimistica dell’illuminismo settecentesco e il pesante dogmatismo del razionalismo ottocentesco, veda nella ragione ciò che essa è: una forza umana diretta a rendere più umano il mondo”. 24
Nel periodo del neoilluminismo, tuttavia, Abbagnano elabora una definizione formale di ragione ancora del tutto estranea alla generica nozione di “ragione problematica”. Questa nuova concezione viene illustrata in un articolo del 1952, intitolato significativamente L’appello alla ragione e le tecniche della ragione. Vi si distinguono due significati del termine. In una prima accezione la ragione designa “una qualsiasi ricerca, in quanto tende a liberarsi da presupposti, pregiudizi e inceppi di ogni genere, che tendono a vincolarla”. In questo primo significato, più generico, viene ripreso il carattere polimorfo della ragione, già contenuto nella definizione della ragione problematica, ma declinato ora in chiave di critica della tradizione e del dogmatismo, secondo le linee del programma neoilluministico. Nel secondo significato, più specifico, la ragione esprime invece “una particolare tecnica di ricerca”.25 Questa seconda definizione introduceva alcune rilevanti novità. In primo luogo, la ragione, da generico strumento di autocomprensione e progettazione esistenziale, veniva a configurarsi, in quanto tecnica, come una particolare procedura formale, la quale dà a se stessa le proprie regole, secondo princìpi convenzionali che “definiscono campi di possibili scelte”.26 In secondo luogo, essendo soltanto una tra le tante tecniche possibili, la ragione perde ogni carattere di unicità, e si configura come una delle diverse forme procedurali della ricerca, la cui diversificazione è rapportata alla pluralità dei campi di applicazione e dei protocolli d’indagine utilizzati. La polemica esistenzialistica contro l’assolutezza della ragione si specifica ora nella definizione della ragione in termini esclusivamente funzionali e pluralistici.
A questa relativizzazione della ragione andava di pari passo la relativizzazione della stessa filosofia. Si è visto come il programma neoilluministico prevedesse la collaborazione tra filosofia e altre forme della ricerca, in particolare la politica e la scienza. Ma la sinergia tra filosofia e politica (a cui teneva particolarmente Bobbio) non fu sviluppata in modo specifico all’interno del movimento né, come si è visto, entrò mai nella sfera degli interessi fondamentali di Abbagnano. I rapporti tra filosofia e scienza furono invece oggetto, in diversa forma e misura, di molti convegni: il motivo è probabilmente che questo tema stette sempre a cuore ad Abbagnano, il quale se ne occupò fin da un volume del 1934 dedicato a La fisica nuova. Fondamenti di una Teoria della Scienza. Sin da allora egli distinse nettamente le funzioni delle due discipline: la scienza ha per oggetto la conoscenza, la filosofia la saggezza. Questa ripartizione di ruoli rimane costante nel suo pensiero. Soltanto alla scienza – egli ribadirà successivamente – spetta “l’intero dominio della conoscenza valida”,27 mentre la filosofia non produce conoscenza, ma è “ricerca della saggezza”.28 Malgrado questa distinzione, scienza e filosofia sono legate da una “connessione funzionale”. La filosofia, intesa qui come teoria della conoscenza, presiede alla delucidazione dei princìpi epistemici, conferendo alla scienza “maggiore consapevolezza dei suoi procedimenti, della sua intenzionalità immanente, delle sue linee di sviluppo e di azione”.29 La scienza, a sua volta, fornisce alla filosofia i contenuti del sapere, senza i quali essa non può svolgere la propria funzione, poiché la saggezza consiste nella definizione dell’uso che l’uomo deve fare di ciò che sa. La filosofia non può quindi vantare nessuna superiorità gnoseologica rispetto alla scienza. Al contrario, essa sottostà agli stessi criteri di autocontrollo e autocorrezione che caratterizzano la scienza. In questo modo Abbagnano operava uno spostamento dell’empirismo dal piano gnoseologico a quello metodologico. L’empirismo non consiste “in una particolare tesi filosofica o un complesso sistema di risultati specifici”, ma nel “riconoscimento esplicito del principio metodologico generale” per cui i risultati a cui perviene ogni ricerca, filosofia compresa, possono e devono essere sottoposti a verifica attraverso qualsiasi strumento tecnico si riveli adatto allo scopo.30 Questa assimilazione della procedura filosofica alle tecniche empiriche della ricerca, e di conseguenza questo suo apparentamento con la scienza malgrado la distinzione degli oggetti e delle funzioni, non comportava però alcun rapporto subordinato della filosofia al sapere scientifico. Abbagnano mantenne sempre il suo atteggiamento antiriduzionismo in relazione al problema del rapporti tra filosofia e scienza. Alla filosofia egli riconobbe una autonomia procedurale rispetto ai canoni scientifici – in quanto filosofia e scienza sono tecniche diverse, aventi oggetti diversi – e respinse sempre la riduzione del linguaggio filosofico a quello scientifico imposta dai canoni del neopositivismo, di cui accettò soltanto i presupposti convenzionalistici. Anzi, questo sua presa di distanza dal neopositivismo – come, per ragioni analoghe, la sua scarsa simpatia per la filosofia del linguaggio – rappresentò uno degli elementi di eterogeneità, e non tra i meno importanti, che portarono alla dissoluzione del movimento neoilluministico.
Nel pensiero di Abbagnano degli anni ’50 e ’60 la dimensione esistenziale della filosofia si va decisamente attenuando a favore di una maggiore considerazione degli elementi procedurali ed epistemologici della ricerca. La filosofia non si risolve comunque mai in una mera tecnica formale, resa indipendente dal proprio oggetto. Anche se più attenta agli aspetti procedurali e maggiormente apparentata con la scienza, la filosofia continua ad essere, a differenza di quest’ultima, riflessione sull’uomo e su ciò che l’uomo deve fare per realizzarsi come uomo. L’ultima produzione letteraria di Abbagnano, la cosiddetta “filosofia popolare”, per quanto perda a volte la scientificità del discorso filosofico, attesta in maniera inconfutabile la fedeltà a quello che egli riteneva essere il compito del filosofo. Ciò che in ogni caso accomuna queste diverse fasi della produzione di Abbagnano – il periodo esistenzialistico, la stagione neoilluministica, l’ultima fase “popolare” – è comunque sempre l’essere state manifestazioni diverse nella forma, negli strumenti di ricerca, nella specificità scientifica, di una “filosofia del finito”, di una “filosofia del limite”. Limite che Abbagnano non ha mai considerato nella sua valenza negativa di ostacolo alla realizzazione, ma sempre – kantianamente – anche come condizione positiva di possibilità. Ed è questa nozione di limite che ci consente di chiudere con una osservazione che riconduce in qualche modo la mia relazione alla cornice complessiva di questi interventi. Il limite, come il finito, è un concetto filosofico che può introdurre al discorso religioso. Il limite sembra infatti rimandare necessariamente al di là di se stesso, a ciò che è altro, a ciò che trascende l’al di qua del limite. Di questo problema Abbagnano tratta esplicitamente in uno scritto del periodo esistenzialistico, Fede filosofia religione, ricompreso nella raccolta Filosofia religione scienza del 1947. Egli parte da due considerazioni fondamentali: la prima è che la fede è un movimento verso la trascendenza, la seconda che senza questo movimento l’uomo non può realizzare se stesso come compito unitario, ma decade necessariamente nella dispersione, nel fallimento o, in termini religiosi, nel peccato. Questo movimento può tuttavia essere effettuato attraverso due vie: l’una è la filosofia attraverso la “forma positiva e concreta della chiarificazione esistenziale”, l’altra la religione nella forma altrettanto “positiva e concreta della rivelazione”. La prima via è l’interpretazione laica della trascendenza, per cui l’essere verso cui l’uomo inizia il movimento di trascendenza è il dover essere, che egli si pone come compito della propria esistenza, come elemento unificatore della propria vita, come possibilità trascendentale che deve realizzare. La seconda via è l’interpretazione religiosa, per cui il trascendente è concepito ontologicamente come divinità, con gli attributi che in quanto tale le pertengono. All’interno della soluzione religiosa, a sua volta, Abbagnano lascia intravedere due possibilità. La prima è che la divinità diventi un elemento assolutizzante, per cui il movimento verso la trascendenza non appare più come l’iniziativa dell’uomo per realizzare se stesso, ma come l’opera di una realtà assolutamente oggettiva che si rivela al finito e lo ricomprende nella sua assolutezza. In questo caso si perde completamente la dimensione del finito, insieme all’elemento esistenziale della trascendenza. Nel secondo caso invece le determinazioni di Dio sono fatte valere dalla religione al di là del loro significato ontologico e riacquistano un valore esistenziale, perché la religione afferma la presenza di Dio nell’uomo in quanto tale, in quanto essere finito, di modo che l’essere trascendente torna a saldarsi con la trascendenza esistenziale. Abbagnano non considera negativamente questa seconda opzione, che ha la stessa origine e lo stesso esito della prima, ancorché se ne discosti nello sviluppo ontologico del momento mediano. La sua condanna si limita al caso in cui la religione, compiuto il movimento della trascendenza verso l’essere, si arresti al momento ontologico senza recuperarlo sul piano esistenziale: ma lo stesso errore – come si è visto – può compiere anche la filosofia, che può rifugiarsi in una universalità assoluta, per cui lo stesso uomo finito viene interpretato nei termini dell’infinito, rappresentato dall’essere, dalla ragione, dallo spirito o dalla natura. Nella misura in cui conserva una dimensione esistenziale, anche la religione può essere una scelta che non esclude quella filosofica. “Filosofia e religione si presentano all’uomo come due alternative tra le quali deve scegliere; ma quale che egli scelga non rinunzia all’altra. Né la scelta è indifferente, né essa può essere prospettata e decisa una volta per tutte. Ognuno deve farla da sé, sotto la sua responsabilità. Quando l’abbia fatta, se è capace di autentico impegno, ritroverà in fondo alla sua via la loro unità”.31 Nel riconoscimento del valore esistenziale della religione e nell’esclusione di una sua incompatibilità con la filosofia risiede una innegabile apertura di Abbagnano alla dimensione religiosa. Ma la scelta tra le due vie, per quanto non immeritoria in nessuno dei due casi se compiuta con la capacità di un “autentico impegno”, non è “indifferente”. E la via della religione anziché quella della filosofia – a dispetto della tardiva conversione di cui si è favoleggiato – è una scelta che Abbagnano non ha mai fatto.
 
                                                                                                                                                                                                                                        Massimo Mori
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1 Cfr. N. Abbagnano, Il principio della metafisica, Napoli, Morano, 1936, pp. 13-17.
2 “Testimonianza” contenuta in Nicola Abbagnano.Un itinerario filosofico, a cura di B. Miglio, Bologna, Il Mulino, p. 241.
3 Per una bibliografia completa cfr. Bibliografia degli scritti di Nicola Abbagnano 1922-1992, a cura di B. Maiorca, Roma-Bari, Laterza, 1993.
4 P. Rossi, “Abbagnano a Torino: dall’esistenzialismo positivo al nuovo illuminismo”, in Nicola Abbagnano, cit., p. 39.
5 N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, in Scritti esistenzialisti, a cura di B. Maiorca, Torino, Utet, 1988,
6 Ivi, pp. 201-202.
7 N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, in Scritti esistenzialisti,cit., pp. 247-48.
8 N. Abbagnano, Filosofia religione scienza, in Scritti esistenzialisti, cit., pp. 386-87.
9 N. Abbagnano, Il possibile e il virtuale, in Scritti esistenzialisti, cit, p. 538.
10 Ivi, p. 537.
11 Cfr. N. Abbagnano. Esistenzialismo positivo. Due saggi, in Scritti esistenzialisti, cit., pp. 522-23.
12 N. Abbagnano, Esistenzialismo come filosofia del possibile, in Scritti esistenzialisti, cit. p. 579.
13 N. Abbagnano, ll nuovo idealismo inglese e americano, Genova-Napoli, Perrella, 1927.
14 La più compiuta forma di romanticismo è per Abbagnano l’idealismo tedesco, Hegel compreso: cfr. i capp. III-V della Storia della filosofia, Torino, Utet, vol. III, 1966, 2° ed. Ma anche il positivismo è inteso come “romanticismo della scienza”: cfr. ivi, pp. 268-69. Nei canoni romantici rientra lo stesso Nietzsche: cfr ivi, p. 377.
15 Cfr. N. Abbagnano, Esistenzialismo positivo, in Scritti esistenzialisti, cit., p.387.
16 N. Abbagnano, Condizioni, dimensioni e razionalità delle scelte, in Scritti esistenzialisti, cit., p. 193.
17 N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, in Scritti esistenzialisti, p. 183.
18 Cfr. N. Abbagnano, Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli, Perrella, 1923.
19 Cfr. N. Abbagnano, Morte o trasfigurazione dell’esistenzialismo, in Scritti esistenzialisti, cit., pp. 583-597.
20 Cfr. N. Abbagnano, Verso il nuovo illuminismo: John Dewey, in Scritti neoilluministici, a cura di B. Maiorca, Introd. di P. Rossi e C.A. Viano, Torino, Utet, 2001, pp. 99-111.
21 La lettera è riprodotta in Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), a cura di M. Pasini e D. Rolando, Milano, Il Saggiatore, 1991, pp. 9-10.
22 Ivi, pp. 11-12.
23 N. Bobbio, Empirismo e scienze sociali in Italia, in Atti del XXIV Congresso Nazionale di Filosofia (L’Aquila, 28 aprile – 2 maggio 1973), Roma, Società Filosofica Italiana, 1973, p. 16.
24 Ivi, p. 111.
25 N. Abbagnano, L’appello alla ragione e le tecniche della ragione, in Scritti neoilluministici, cit., p. 155.
26 Ivi, p. 162.
27 N. Abbagnano, Filosofia religione scienza, in Scritti esistenzialisti, cit., p. 455.
28 N. Abbagnano, Per e contro l’uomo, Milano, Rizzoli, 1968, p. 91
29 N. Abbagnano, La fisica nuova. Fondamenti di un Teoria della Scienza, Napoli, Guida, 1934, p. 455.
30 N. Abbagnano, Sul metodo della filosofia, in Scritti neoilluministici, cit. p. 89
31 N. Abbagnano, Filosofia religione scienza, in Scritti esistenzialisti, cit., p. 439.
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In: AA.VV., Le due Torino. Primato della religione o primato della politica?, pp. 135-148, a cura di Gianluca Cuozzo e Giuseppe Riconda, Trauben, Torino, 2008