Pietro Rossi

Nicola Abbagnano: uno dei maestri più prestigiosi

In quest'aula, che viene oggi intitolata al suo nome, Nicola Abbagnano tenne i suoi ultimi corsi, fino al momento di essere collocato fuori ruolo il 1° novembre 1971. La maggior parte della sua attività accademica si svolse però non in questo palazzo, ma nel palazzo centrale dell'Università che ospita attualmente il rettorato e poi, nel dopoguerra, in palazzo Campana, dove anch'io e l'amico Viano - al pari di tanti professori della facoltà - ne frequentammo le lezioni.
Abbagnano era giunto a Torino nel 1936 quale professore di Storia della filosofia nella facoltà di Magistero, e vi aveva insegnato per tre anni prima di trasferirsi nella nostra facoltà, quale successore di Adolfo Faggi. Vi era giunto dalla natia Salerno e da Napoli dove aveva compiuto gli studi universitari e dove aveva insegnato per oltre un decennio, al Liceo Umberto I e contemporaneamente, quale professore incaricato, all'Istituto di Magistero "Suor Orsola Benincasa". Quando arrivò a Torino, trentacinquenne, era ormai uno studioso maturo, che aveva al suo attivo libri teorici come Le sorgenti irrazionali del pensiero (1923) e La fisica nuova (1934), e volumi di carattere storico sull'idealismo anglo-americano, su Émile Meyerson, su Guglielmo d'Ockham, sulla nozione del tempo in Aristotele. E a Torino, non in una Napoli dominata dalla presenza ingombrante di Benedetto Croce, egli doveva diventare una figura centrale della cultura filosofica italiana. Torino fu la sua seconda patria; e qui egli strinse legami di amicizia con letterati come Pavese e pittori come Casorati, con filosofi come il vecchio Gioele Solari, professore di filosofia del diritto, come Norberto Bobbio e Ludovico Geymonat, con un editore come Carlo Verde. E a Torino egli visse le due stagioni più importanti, quella esistenzialistica e quella neoilluministica. Nella seconda metà degli anni Trenta Torino era diventata, per così dire, il centro di "importazione" dell'esistenzialismo: se ne interessavano Annibale Pastore, Augusto Guzzo, il suo giovane allievo Luigi Pareyson. In questa città per lui nuova, in un clima filosofico così diverso da quello napoletano, Abbagnano pubblicava nel '39 un libro che ebbe larga eco, La struttura dell'esistenza. Di esso ebbe a scrivere, quasi trent'anni dopo, Norberto Bobbio: "Tra le opere di rottura [di rottura, s'intende, del clima filosofico idealistico] fu certamente la più sconvolgente. Non assomigliava a nessuna delle opere filosofiche che si erano andate scrivendo in quegli anni, anche nella forma, che era scabra, lineare, senza i soliti impeti oratori e le solite virtuosità dialettiche... Non era un libro facile, ma proprio perchè‚ era scritto con rigore, guidato e sorretto da una rara disciplina mentale, si lasciava capire". Anche l'esistenzialismo italiano aveva così il suo testo, un testo che poteva affiancarsi a Sein und Zeit di Heidegger e alla Philosophie di Jaspers, e che precedeva di qualche anno il sartriano L' etre et le néant, ma che ad essi si contrapponeva per il suo orientamento - come Abbagnano teneva a sottolineare - "positivo" anzichè‚ "negativo". Questo libro fu, negli anni successivi, al centro del dibattito filosofico italiano, come dimostra la discussione condotta nel '43 su "Primato", la rivista della fronda fascista facente capo a Bottai - una discussione aperta e conclusa da Abbagnano, nella quale intervennero i principali esponenti del pensiero filosofico di allora.
Ma proprio quando, all'indomani del conflitto, l'esistenzialismo era ormai diventato una "moda", gli interessi di Abbagnano cominciarono a rivolgersi in nuove direzioni. Egli prese parte, insieme a Geymonat, a Bobbio e a un ristretto gruppo di scienziati torinesi, alla fondazione del Centro di Studi metodologici, che divenne il principale centro di diffusione dell'epistemologia più recente, in particolare del neopositivismo; nello stesso tempo studiò il pensiero di John Dewey, fin allora noto in Italia soltanto come pedagogista, e ad esso dedicò nel '48 un saggio intitolato significativamente Verso il nuovo illuminismo. Ebbe allora inizio una nuova fase del pensiero di Abbagnano, nella quale l' "esistenzialismo positivo" del decennio precedente si sviluppò in direzione di un "empirismo metodologico". Quando nel 1948 Viano e io ci iscrivemmo alla Facoltà di Lettere e cominciammo a seguirne le lezioni, Abbagnano aveva ormai concluso la sua personale elaborazione dei temi centrali dell'esistenzialismo; si avviava a diventare il filosofo del neo-illuminismo. E intorno ad Abbagnano si riunirono, in nome del "ritorno all'Illuminismo", filosofi di diversa formazione e anche di diversa impostazione, ma accomunati dal rifiuto sia dell'eredità idealistica sia del risorgente spiritualismo cattolico: filosofi come Bobbio e Geymonat, ma anche come Giulio Preti e molti altri. Si trattava di un ritorno che poco aveva a che fare con ciò che storicamente era stata, specialmente nei suoi progetti politici, la cultura illuministica; ma esso rifletteva un clima nuovo, proteso alla scoperta di vie inesplorate: un clima che, a sua volta, costituiva il correlato dell'incipiente processo di modernizzazione della società italiana. E non era affatto un caso che, in un momento nel quale il nostro paese riprendeva la difficile strada della democrazia politica, un settore della cultura filosofica guardasse a filosofie sorte o sviluppatesi nel mondo anglosassone, dove quella strada era stata percorsa da secoli. Il "nuovo illuminismo" si presentava come una filosofia che "vede nella ragione ciò che essa è, una forza umana diretta a rendere più umano il mondo". Il nuovo illuminismo, un illuminismo spogliato dell' "illusione ottimistica dell'illuminismo settecentesco", veniva a indicare il compito proprio di una filosofia rivolta verso una trasformazione razionale della realtà, in nome di una ragione "limitata" ma non per questo impotente.
In quello stesso periodo Abbagnano dedicò gran parte del proprio lavoro a scrivere un'opera ancor oggi largamente letta (e studiata): i tre volumi della Storia della filosofia pubblicati dall'U.T.E.T. tra il 1946 e il '50, preceduti da un fortunato Compendio scolastico edito da Paravia. Ad essi farà seguito, a distanza di un decennio, il Dizionario di filosofia: una vera e propria summa concettuale, una specie di sistema filosofico esposto per grandi "voci", che segnò il culmine di quello sforzo di chiarificazione teorica in cui Abbagnano fu maestro.
Molti capitoli della Storia della filosofia, e molti gruppi di "voci" del Dizionario, furono esposti nel corso delle lezioni che Abbagnano teneva a Palazzo Campana. I corsi storici dell'immediato dopoguerra costituiscono la preparazione dei capitoli della Storia della filosofia dedicati al pensiero contemporaneo, mentre quelli degli anni '50 anticipano le principali "famiglie" di concetti analizzati nel Dizionario. Per lungo tempo Abbagnano tenne per incarico anche l'insegnamento della Pedagogia, che egli utilizzò soprattutto per introdurre la sociologia e per presentare ai molti studenti che lo frequentavano le tesi poi sviluppate nelle pagine dei Problemi di sociologia. E in questo periodo Abbagnano fece scuola, raccogliendo intorno a sé una schiera di allievi, incoraggiandoli a scegliere temi di ricerca congeniali ai loro interessi - dalla filosofia antica a quella contemporanea, dalla sociologia alla ricerca antropologica - e assicurando ad essi una libertà assai rara nell'università di allora (come forse anche in quella di oggi).
Tra questi allievi vi ero anch'io, che nel '72 sarei stato chiamato a succedergli, e vi era Viano, che oggi tiene la sua cattedra; così pure vi erano altri più giovani, che insegnano nella nostra o in altra facoltà dell'ateneo torinese. Nessuno di noi, per quanto alieno dalle celebrazioni, ha dimenticato il debito di riconoscenza che lo lega ad Abbagnano. E questo debito voglio oggi dichiarare pubblicamente, in un'occasione in cui la Facoltà di Lettere e filosofia ricorda - con una sobrietà di stile che certamente non gli sarebbe dispiaciuta - uno dei suoi maestri più prestigiosi.

PIETRO ROSSI

11 ottobre 1999 - Discorso tenuto da Pietro Rossi in occasione dell'intitolazione al filosofo Nicola Abbagnano dell'aula n. 35 della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino.