Nicola Abbagnano - Luciano Gallino

I venticinque anni dei Quaderni

Questa rivista ha compiuto il suo venticinquesimo anno di vita. Venticinque anni sono molti nel periodo che attraversiamo, dato il ritmo veloce con cui cambiano orientamenti, istituzioni, ideologie, interessi teorici e pratici. Val la pena perciò di ricordare questo avvenimento modesto, che tuttavia ha segnato una data nella storia culturale italiana. Quando, per iniziativa di Franco Ferrarotti e mia, questa rivista nacque nel 1951, le circostanze erano tutt'altro che favorevoli agli studi sociologici. L'idealismo, che aveva dominato nei decenni precedenti la cultura italiana e di cui ancora rimanevano tracce, considerava la sociologia una falsa scienza cui non convenisse prestare alcuna attenzione. Studi sociologici erano occasionalmente coltivati da economisti e politici; ma lo stesso Trattato di sociologia (1916) di Vilfredo Pareto, che ora è considerato come un'opera classica, non aveva suscitato in Italia alcuna attenzione. Non esistevano nelle università italiane cattedre di sociologia; e anche questo era un fattore che impediva o scoraggiava l'interesse per questa scienza. Esistevano tuttavia condizioni obiettive per l'insorgere di questo interesse. In primo luogo, l'impossibilità, sempre più e meglio riconosciuta, di istituire un qualsiasi discorso sull'uomo, e specialmente sul suo sviluppo e sulla sua educazione, senza tener conto del suo aspetto "sociale"; quindi l'esigenza di determinare la natura e la portata di questa socialità. In secondo luogo, l'esigenza di rendersi conto, con ricerche appropriate e accertamenti validi, dei problemi sociali fatti sorgere dalle trasformazioni in atto. In terzo luogo, l'esempio degli altri paesi, ai quali la cultura italiana si era ormai aperta abolendo la precedente clausura, nei quali la ricerca sociologica aveva già dato frutti abbondanti. Infine, l'esigenza di non acquisire passivamente i risultati di tale ricerca, ma di sottoporla a un controllo teorico e sperimentale. Fu la percezione esatta di tali esigenze a ispirare i fondatori di questa rivista, il cui primo numero, in formato ridotto e con scarso numero di pagine, apparve nell'estate del 1951. Franco Ferrarotti vi prepose un ambizioso "piano di lavoro" che si è rivelato tuttavia decisivo per l'orientamento della rivista. Vi era chiaramente indicato un orientamento critico che servisse "a sbloccare sul piano della ricerca viva, colta nel suo momento induttivo, gli apriorismi del sociologismo tradizionale (denuncia e avvio di una aporetica sistematica) e nel contempo servisse come verifica delle singole ipotesi di lavoro, in prima istanza, nonché dei principi generali della ricerca, ossia dei principi primi della scienza (integrazione e definizione del rapporto della sociologia rispetto alla filosofia e alle scienze)". Ferrarotti accennava anche all'importanza delle ricerche sul campo, di cui infatti la rivista sin dal primo numero portò qualche esempio, e a quella di una divulgazione delle tecniche di ricerca e di alcune verità parziali acquisite dalla sociologia negli altri paesi. I QUADERNI DI SOCIOLOGIA costituirono il primo accenno di una ripresa degli studi sociologici in Italia. Nei dieci anni che seguirono la loro apparizione, questi studi conobbero una prima fioritura anche perché ne fu subito compreso, non solo l'interesse teorico, ma anche l'utilità pratica ai fini di una migliore organizzazione delle strutture economiche e sociali. Sorsero, o risorsero a nuova vita, le riviste specifiche. Furono istituite cattedre di sociologia che subito richiamarono l'interesse di molti studenti. Si accese la polemica tra le diverse impostazioni teoriche della scienza e si moltiplicarono le indagini specifiche su settori o aspetti della vita sociale.
Nel 1962 i QUADERNI DI SOCIOLOGIA iniziarono la loro nuova serie nell'attuale formato e si arricchirono di nuovi collaboratori e di nuove rubriche. Fu istituito quel "Comitato direttivo" che tutt'ora la regge e al quale, negli anni successivi, venne a mancare l'apporto di Angelo Pagani, sottratto da una morte immatura agli studi e all'amicizia dei suoi colleghi. La nuova serie dei QUADERNI DI SOCIOLOGIA, scriveva Ferrarotti, raccoglie un gruppo di studiosi che, pur nella professione della più schietta indipendenza scientifica, sono convinti del carattere critico e orientativo della sociologia. Essa si presenta arricchita dei suoi strumenti di informazione di indagine, e si augura di poter recare un contributo all'impostazione rigorosa delle ricerche nel nostro Paese in collaborazione con quanti in Europa, negli Stati Uniti e negli altri paesi, vedono nella sociologia uno strumento potente di demistificazione e di autoconsapevolezza.
Si può onestamente dire che negli anni successivi questa rivista ha tenuto fede al suo impegno. Non sono ad essa sfuggiti i fenomeni e gli aspetti più macroscopici della vita sociale del nostro tempo, ai quali ha dedicato talvolta numeri unici che hanno avuto vasta risonanza. Dall'altro lato, essa è rimasta estranea a quel "sociologismo" deteriore che si ferma a spiegazioni stereotipe dei fenomeni sociali, spiegazioni che, come le chiavi false, aprono tutte le porte. Essa è e intende restare una libera palestra di ricerche, di critiche, di indagini approfondite, nonché un notiziario esauriente di quanto si fa nel suo campo. Dal 1968 essa è diretta con grande scrupolo scientifico e pari equilibrio da Luciano Gallino che è attorniato da un gruppo di ricercatori valenti. A lui spetta ora delinearne le prospettive per il prossimo avvenire.

NICOLA ABBAGNANO

Chi voglia farsi un'idea delle trasformazioni subite dalla sociologia nel giro di venticinque anni - quanti ne contano ora i QUADERNI - non può trovar di meglio che consultare la raccolta completa di alcune delle principali riviste europee e americane di questa disciplina. La semplice lettura dei sommari delle successive annate è sufficiente per dare il senso di come la trasformazione sia stata rapida e profonda. I temi su cui si è formata l'intera generazione dei sociologi della generazione di mezzo sono pressoché scomparsi. E' raro trovare, in un'annata, un singolo articolo sulla teoria del sistema sociale, sulle relazioni come forme di scambio, sui rapporti tra cultura e personalità, sulla teoria dei gruppi (piccoli o grandi che siano), sulla struttura delle organizzazioni complesse, sui fondamenti metodologici ed epistemologici della sociologia. Al loro posto si discute di imperialismo, di riproduzione dei rapporti sociali attraverso la scuola e l'ideologia dei mass media, di sfruttamento e di organizzazione del lavoro, di rendita urbana e di movimenti di protesta. Se si dovesse sintetizzare in poche parole tale movimento di distacco dalla sociologia della metà del secolo, ancor gravida di preoccupazioni e categorie del secolo precedente, si potrebbe dire che la sociologia si è fatta al tempo stesso più presente alla realtà del suo tempo (ma in questo c'è un po' di millantato credito: nessun sociologo contemporaneo ha ancora mostrato di saper descrivere la realtà del tempo come qualcuno dei suoi padri, che so, Tocqueville o Stein o Le Play), più consapevolmente politica, e più aggressiva nei confronti di ogni autorità costituita.
Sui fattori di codesta trasformazione, fra i quali va messo in primo piano l'uso della sociologia come porta d'ingresso sostitutiva alla riflessione ed alla partecipazione politica di masse di studenti e di giovani docenti affacciatisi alla politica per la prima volta nella storia dei loro paesi, non è il caso di soffermarsi in questa sede. Quel che ci preme notare è che ad essa non sono stati estranei i QUADERNI. Se tra le finalità della nuova serie della rivista, iniziata nel 1962, figurava un maggior impegno nell'analisi della società italiana contemporanea, bisogna dire che l'impegno, compatibilmente con i limitati mezzi di cui può disporre una rivista di questo genere, è stato assolto. Alcuni dei saggi più significativi dell'ultimo decennio intorno a problemi centrali del diritto, della partecipazione politica, dell'industria, delle classi sociali in Italia sono comparsi originariamente sui QUADERNI. Ma bisogna anche dire che alla trasformazione cui si accennava della sociologia contemporanea i QUADERNI hanno preso parte con qualche cautela. Abbastanza spesso l'ansia di trasformare dalle radici la sociologia, dimentica che si può trasformare davvero solo "innalzando e conservando" il meglio di quel che si è fatto finora, ha finito per originare forme di iperstoricismo che di sociologico hanno ben poco, e di schematismo sociologico che nulla hanno di scienza.
All'ossessione del fatto contingente, che rifiuta di usare metodi e categorie e generalizzazioni per tema di perdere il senso "vissuto" di un evento, o di dover rinunciare alla pretesa di reinventare ogni volta il mondo, ed alle sociologie passepartout, cui si richiama criticamente anche Nicola Abbagnano nella nota che precede, conviene opporre - sono state qui opposte - ragioni di storia, di metodo e di libertà. Di storia: un po' troppo spesso i lavori della "nuova" sociologia sembrano più interessati a discutere del perché la realtà contemporanea non ha ritenuto di adeguarsi a certe previsioni formulate un po' più di un secolo addietro, che non ad analizzare in proprio tale realtà, cominciando magari col farne la storia. Di metodo: una disciplina scientifica deve produrre, come pratica, e contenere, come memoria organizzata, delle conoscenze applicabili in circostanze diverse. Se per l'estetica la domanda cruciale rimane "perché l'Odissea ci diverte e commuove, dopo tremila anni?", per la sociologia è "perché le società umane continuano a produrre e riprodurre condizioni di esistenza simili, nonostante le immense differenze di storia, di sviluppo, di cultura, di ordinamento?" Di libertà: l'idea che una società sia in tutto e per tutto il prodotto di un ordinamento contingente, rimosso il quale essa risulterà plasmabile ex novo, nella sua totalità e in ogni dettaglio, è una terribile trappola dell'immaginazione totalitaria. Oltre che storia, la società è natura, e, come la natura, si può plasmarla entro certi limiti soltanto conoscendone le leggi, l'interna necessità. Quanto ampi siano questi limiti, si può dirlo soltanto salvando al tempo stesso la coscienza di essi e la libertà intellettuale e pratica di esplorarli.
Come per il passato, i QUADERNI continueranno ad essere aperti a chiunque, pur muovendo da posizioni diversissime, si riconoscano in tali ragioni, più col lavoro quotidiano che in base ad argomentazioni dottrinali. Quanto a programmi, la direzione di una rivista non dovrebbe forse azzardarsi a farne, visto che essa dipende interamente dalla buona volontà degli autori. Ma per quanto la concerne, essa cercherà di dare maggiore spazio, nel prossimo futuro - accanto alle ricerche sulla realtà contemporanea, non solamente italiana - ad alcuni temi che essa considera di interesse vitale per la disciplina, in questa fase della sua evoluzione. Innanzitutto i rapporti con altre discipline, in specie, con la storiografia: l'interesse che molti storici mostrano oggi per l'analisi sociologica dovrebbe essere compensato da una più sviluppata coscienza storica presso i sociologi, e da una miglior conoscenza della metodologia storiografica. La formazione dei sociologi, diventino essi operatori sociali, ricercatori a fini applicativi, insegnanti medi - non è forse lontano il momento in cui la sociologia entrerà nelle medie superiori - o docenti universitari, non dovrebbe essere estranea, con i suoi complessi problemi di curriculum, di metodologia didattica, di tecnologie sussidiarie, ad una rivista come i QUADERNI, specie nell'ipotesi che il dipartimento diventi tra pochi anni, bene o male, il cardine dell'ordinamento universitario. Infine v'è la critica sistematica della produzione sociologica italiana, ch'era uno degli scopi della nuova serie ma che è di fatto rimasto in ombra, in parte per difetto di recensori, in parte perché le reazioni degli autori dinanzi a qualsiasi apprezzamento che non sia uno sperticato elogio lasciano talvolta francamente allibiti. Certo, con i meccanismi che sappiamo dei concorsi a cattedre, non si può chiedere a dei giovani docenti di atteggiarsi ad eroi. Ma coloro che hanno superato questo spiacevole scoglio potrebbero forse intervenire più spesso per sviluppare un costume che in altre discipline è ormai secolare: parlare bene delle buone opere, e male delle cattive, senza che ciò abbia intenzione o parvenza di attacco alla persona o all'onore.

LUCIANO GALLINO

in "Quaderni di sociologia", Nuova Serie, vol. XXV, n. 1, Gennaio-Marzo 1976