Norberto Bobbio

Discorso su Nicola Abbagnano

1. Non posso nascondere il mio imbarazzo nel dover parlare dell'opera di Nicola Abbagnano. Per due ragioni, almeno: anzitutto si tratta di un'opera tutt'altro che conclusa, di un'opera che, anzi, continua ad evolversi per interno accrescimento con una straordinaria capacità di impadronirsi dei principali nodi di sviluppo del sapere contemporaneo. In secondo luogo, è troppo frammischiata alla storia della cultura contemporanea in Italia, da almeno trent'anni, perché chi, come me, si muove dentro questa storia possa parlarne con sufficiente distacco, da storico e non da testimone. Dico subito che se il mio discorso non sarà un discorso storico e critico non sarà neppure - e non ho bisogno di spiegare il perché - un'apologia pro amico. Abbagnano ed io abbiamo in comune una qualità (che noi naturalmente consideriamo una virtù): di non amare i discorsi troppo lunghi e di intenderci con poche parole. Nel nostro "universo di discorso" non c'è posto per i complimenti.
Per far comprendere l'atteggiamento con cui ho affrontato il tema, voglio dire ancora questo: non ho potuto ricostruire l'evoluzione del pensiero di Abbagnano senza ripercorrere le tappe del mio itinerario mentale, senza ripensare ai miei casi personali, senza rifare di straforo e di traverso la storia parallela della mia vita. Per questo il mio discorso sarà insieme storia e memoria, analisi e testimonianza, ricostruzione oggettiva e riflessione interiore. Chiedo scusa sin d'ora se non avrò saputo eliminare ogni tentazione all'autobiografia. Ma confesso che il dover ricercare il nucleo essenziale e il senso della filosofia di Abbagnano, con il quale condivido da anni non solo la direzione di una rivista filosofica ma una posizione culturale, è stata per me una buona occasione per fare un bilancio personale.

2. Siamo tutti d'accordo, credo, nel ritenere che gli anni decisivi per la crisi dell'idealismo e per la nascita dei nuovi fermenti che avrebbero alimentato le principali correnti del dopoguerra siano gli anni che vanno dal 1930 al 1940.
Col Concordato del 1929 l'idealismo attuale di Giovanni Gentile, filosofia radicalmente immanentistica, laica, che vantava progenitori come Giordano Bruno e maestri come Bertrando Spaventa, aveva cessato di essere la filosofia ufficiale del regime. Cominciava per la cultura ufficiale la lunga notte della ripetizione delle parole d'ordine, dell'ortodossia comandata, del conformismo sterile e sterilizzante. Ma dietro la facciata, esauritasi la forza espansiva dell'idealismo, il dibattito filosofico diventò più vivace, più intenso, più aperto a voci nuove o più disposto a riascoltare voci che per lungo tempo erano state soffocate. La discussione cominciò all'interno dello stesso idealismo. La scuola di Gentile si spaccò in una destra che andò sempre più riprendendo e riscoprendo temi e motivi dello spiritualismo cristiano, e in una sinistra che si dissolse nel problematicismo. Da un lato, Il mito del realismo di Armando Carlini è del 1936, Idealismo e cristianesimo di Augusto Guzzo pure del 1936. Dall'altro, nel 1937 esce La vita come ricerca di Ugo Spirito che rappresenta molto bene la coscienza inquieta di una filosofia che ha perduto irrimediabilmente la fiducia nella propria autosufficienza. Un altro allievo di Gentile, Guido Calogero, che aveva iniziato in quegli anni a radunare attorno a sé gruppi clandestini di resistenza al fascismo, faceva uscire nel 1938 una piccola somma delle sue tesi filosofiche, La conclusione della filosofia del conoscere, e nel 1940 un libro di etica e di pedagogia, La scuola dell'uomo, chiaramente allusivo ai compiti di una filosofia liberatrice in un mondo che si avviava attraverso la dittatura alla catastrofe della seconda guerra mondiale: con Calogero non si poteva più parlare né di destra né di sinistra, perché l'attualismo non era soltanto sviluppato o compiuto dall'interno, ma rovesciato. Con una singolare intuizione anticipatrice, Franco Lombardi pubblicava nel 1935 un libro su Feuerbach, nel 1936 un altro su Kierkegaard: due filosofi che erano rimasti ai margini della filosofia accademica, ma avremmo trovati pochi anni dopo sulla via maestra, l'uno della rinascita marxistica, l'altro dell'esistenzialismo. Fuori dell'idealismo non bisogna dimenticare che in quegli stessi anni Ludovico Geymonat aveva preso i primi contatti con la allora non nota in Italia Scuola di Vienna, e andava scrivendo le sue prime opere impegnate in una riscoperta della filosofia della natura, e del positivismo rammodernato: La nuova filosofia della natura in Germania è del 1934, Ricerche filosofiche, in cui espone le tesi principali della fondazione neo-positivistica della conoscenza, è del 1939. Quando Antonio Banfi diede vita nel 1940 alla rivista Studi filosofici, insieme con alcuni discepoli, la revisione dell'idealismo era ormai in atto e i temi della "ripresa" ormai tutti riemersi e riproposti alla discussione. Nonostante il silenzio e il rigore censorio anche il marxismo teorico non era morto: avremmo appreso a liberazione avvenuta che in quegli stessi anni, alla superficie apparentemente stagnanti ma agitati da correnti sotterranee, Antonio Gramsci nella sua cella di prigioniero aveva fatto anche lui i suoi conti con l'idealismo, riesaminando e rinnovando attraverso Lenin la concezione marxistica della storia e scrivendo uno dei capitoli più importanti della fortuna tutt'altro che effimera del marxismo teorico in Italia.

3. Nel 1939 apparve La struttura dell'esistenza di Nicola Abbagnano. Tra le opere di rottura fu certamente la più sconvolgente. Non assomigliava a nessuna delle opere filosofiche che si erano andate scrivendo in quegli anni, anche nella forma, che era scabra, lineare, senza i soliti impeti oratori e le solite virtuosità dialettiche. Pur le opere impegnate nella polemica idealistica serbavano la consueta aria di famiglia: la filosofia italiana non aveva l'abitudine alla sobrietà. Il libro di Abbagnano era tanto poco vestito da lasciar apparire chiaramente lo scheletro ed era uno scheletro ben fatto, completo, armonico dove ogni cosa era a suo posto. Con questo non voglio dire che fosse un libro facile: anzi, per la sua novità era un libro quasi segreto di cui bisognava trovare la chiave ed era una chiave che non si trovava nei soliti cassetti. Non era un libro facile, ma proprio perché era scritto con rigore, guidato e sorretto da una rara disciplina mentale, si lasciava capire. Ciononostante fu una sorpresa, forse la più grossa sorpresa di quegli anni. Ricordo benissimo che a me e a tanti altri apparve allora come un meteorite piovuto dal cielo. Per quanto si fosse cominciato a parlare da qualche anno di esistenzialismo, nessuno era preparato a trovarsi di fronte ad un filosofo esistenzialista italiano, tanto meno ad una versione italiana, già compiuta e perfetta, dell'esistenzialismo. Confesso che, a pensarci ora dopo tanti anni, il senso della sorpresa non è del tutto venuto meno. Come Abbagnano fosse arrivato all'esistenzialismo e ci fosse arrivato subito in modo cosi sicuro, da padrone, resta ancora nell'ombra. In un saggio autobiografìco del 1940 egli stesso si limita a dire che, dopo il precedente saggio Il principio della metafisica del 1936, la filosofia dell'esistenza di Kierkegaard e di Heidegger gli aveva offerto i termini per soddisfare l'esigenza che aveva formulato ma non risolto di "sottrarre il principio della metafisica ad ogni interpretazione obbiettivistica e soggettivistica, e quella, altrettanto risoluta e ferma, di legarlo alla costituzione dell'uomo come tale".1
Negli anni precedenti era stato uno scrittore particolarmente precoce e fecondo. Aveva cominciato a soli ventidue anni con Le sorgenti irrazionali del pensiero (1923), cui erano seguite Il problema dell'arte (1925), Il nuovo idealismo inglese e americano (1927), La filosofia di Emile Meyerson (1929), una completa monografia su Guglielmo d'Ockham (1931), La nozione del tempo secondo Aristotele (1933), La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della scienza (1934), Il principio della metafisica (1936). I temi affrontati, come si vede, erano molti e di singolare ampiezza: si iscrivevano in un orizzonte culturale che abbracciava tutti i punti cardinali del pensiero filosofico, dalla storia della filosofia attraverso il pensiero antico, medioevale, moderno e contemporaneo, alla filosofia teoretica, con particolare riguardo al problema della scienza e dell'arte. Ma ancora l'ultima opera prima dell'incontro con l'esistenzialismo, Il principio della metafisica poc'anzi ricordata, con l'esigenza di fondare una metafisica come speculazione assolutamente autonoma, tale cioè da includere nella sua stessa costituzione le condizioni della propria validità, con la determinazione del pensiero come principio della metafisica, cioè come la stessa metafisica nel suo attuarsi, non lasciava presagire la svolta esistenzialistica. Forse la preparava nel senso che sgombrava il cammino da tutte le metafisiche precedenti ed esprimeva l'esigenza di una autofondazione della metafisica garantita dal proprio porsi al di fuori di ogni fondazione soggettivistica od oggettivistica tradizionale. Chi, come me, interpretava l'esistenzialismo come filosofia della crisi, come una specie di resa dei conti finale dell'irrazionalismo contemporaneo, di cui coglievo peraltro il valore di denuncia spietata della retorica dei falsi ideali, avrebbe forse potuto scorgere un'anticipazione dell'esistenzialismo del '39 nelle tesi irrazionalistiche dell'opera giovanile. Ma altri avrebbe potuto con egual diritto, forse, vedere nell'interesse per i problemi che venivano proposti alla filosofia dalla fisica nuova, una ragione per cui l'esistenzialismo, nel momento stesso in cui era stato accolto nel suo principio ispiratore, era stato subito trasformato nella sua sostanza, quasi tramutato nella concezione del mondo e dell'uomo che gli era propria.
L'unica cosa che si può dire con certezza è che l'esistenzialismo fu per Abbagnano giunto agli anni della maturità e della compiuta maturazione, attraverso un tirocinio esemplare per ricchezza di esperienze e vastità di documentazione, un incontro congeniale, che servì a sciogliere i nodi che il dibattito filosofico postidealistico aveva aggrovigliati, a fargli trovare una strada, in un momento in cui alla filosofia si chiedeva, oltre che una teoria dei primi princìpi, un messaggio umano.

4. Il messaggio contenuto nell'opera si esprimeva nell'assunzione consapevole e responsabile, insieme appassionata e rigorosa, senza illusioni ma insieme anche senza autoflagellazioni, della finitudine dell'uomo: con alcune formule pregnanti che saranno spesso, da allora, riecheggiate, l'esistenza come impegno totale, come fedeltà al proprio destino, come scelta appassionata della finitezza, in ultima istanza come scelta della scelta, che è la scelta esistenziale per eccellenza, in quanto garantisce la possibilità di tutte le scelte e quindi fa dell'uomo un essere libero, non abbandonato al corso degli eventi né succube degli altri, ma padrone di sé e delle proprie opere, proteso, pur senza assicurazioni e quindi sempre nel rischio di non riuscire, verso una comunità di uomini liberi.
Dietro questo messaggio si poteva intravedere una insofferenza per l'ottimismo obbligato dell'attualismo e per il pessimismo catastrofico di coloro che, muovendosi al di fuori della fìlosofia della cattedra, andavano denunciando i primi sintomi di un'immane "crisi della civiltà". Anche Abbagnano apriva la crisi. Ma al contrario dei profeti della crisi proponeva una soluzione. L'opera del '39 non era affatto un'opera soltanto polemica: era un'opera costruttiva. Se c'era una polemica, questa era all'interno dello stesso esistenzialismo, di cui si accettavano la concezione della filosofia come analisi esistenziale, alcune categorie fondamentali, come quelle della possibilità, della scelta, della finitezza, alcuni valori ultimi, come quello dell'autenticità contrapposta alla dispersione, della fedeltà, dell'esistenza come responsabilità e rischio, ma si rifiutavano le soluzioni in nome di una maggiore coerenza con gli stessi principi accolti e di una più severa attuazione dei valori assunti.
Accettata la definizione dell'esistenza come sforzo verso l'essere, sembrava ad Abbagnano che nella filosofia di Heidegger lo sforzo verso l'essere, considerato soltanto nel suo punto di partenza, che è il nulla, finisse di diventare un esistere per il nulla, nella filosofia di Jaspers lo stesso sforzo per l'essere, considerato solo nel suo punto di arrivo, conducesse allo scacco fìnale: in entrambi i casi lo sforzo verso l'essere si trasformava nel suo contrario, cioè nello sforzo verso il nulla. Il problema di fondo della filosofia di Abbagnano da quest'opera in poi è quello di salvare la funzione categoriale preminente e il valore normativo della categoria della possibilità, in modo da impedire che essa decada, come avviene nelle altre forme di esistenzialismo, non solo in quelle originarie di Heidegger e Jaspers, ma anche in quelle che verranno in seguito attraverso l'esistenzialismo francese, nei modi opposti della necessità o della impossibilità. L'unico rimedio a questa caduta è l'oltrepassamento della possibilità nella possibilità della possibilità o possibilità trascendentale: se la possibilità è condizione di libertà, la possibilità a sua volta è garantita solo se il possibile è sempre possibile, cioè se non si trasforma per una fatale incoerenza nel necessario o nell'impossibile. A questo punto l'analisi cede il passo ad una dottrina di saggezza: perché il possibile non degradi nel suo contrario, occorre non solo scegliere ma scegliere di scegliere, e quindi scegliere in modo che una scelta sia sempre possibile. La scelta della scelta è la scelta esistenziale, cioè è la scelta che rendendo sempre possibile il possibile, cioè liberandolo dallo scacco, garantisce la libertà, s'intende la libertà finita di cui l'uomo solo è capace. Con questa dottrina di saggezza Abbagnano si poneva al di là della crisi di cui il primo esistenzialismo era un'espressione, una denuncia e in fin dei conti un'accettazione.
Sarebbe stata proposta in seguito la contrapposizione tra esistenzialismo negativo ed esistenzialismo positivo. La positività dell'esistenzialismo di Abbagnano era chiara, se non del tutto spiegata, sin dal principio: e consisteva in ciò che di quelle stesse categorie filosofiche, che erano servite ai primi esistenzialisti e ancor più crudamente agli esistenzialisti letterari, a proclamare l'insufficienza dell'uomo, lo scacco di ogni sforzo verso l'essere, lo scandalo dell'esistenza, Abbagnano si era valso, e si sarebbe valso sempre di più in seguito, via via che avrebbe proceduto nella ricognizione delle possibilità effettive dell'uomo, per tracciare le linee di un umanesimo costruttivo, lontano tanto dall'ottimismo trionfante quanto dal pessimismo eroico. L'esistenzialismo di Abbagnano non fu mai, come si disse di altri esistenzialismi, una teologia rovesciata. Fu invece, sin dal primo momento, un rovesciamento dell'antropologia religiosa: quei caratteri dell'uomo che per l'antropologia religiosa sono i segni della misère della condizione umana, sono per Abbagnano i segni, non dico della sua grandeur, ma certo della sua dignità, i presupposti di ogni qualsiasi pregio o merito dell'avventura umana nel mondo. Era dunque chiaro, sin da questa prima opera, che Abbagnano si muoveva contro due avversari filosofici ad un tempo: la filosofia come possesso totale, e la filosofia come rinuncia altrettanto totale, in nome dell'ideale di un possesso sempre contrastato e sempre riacquistato. In un saggio notissimo di molti anni più tardi, considerato talvolta come una svolta risolutiva, Abbagnano parlerà di morte e trasfigurazione dell'esistenzialismo: ma la trasfigurazione era già cominciata nella prima opera, e quindi prima ancora della morte.
Il tema della possibilità del possibile diventa d'ora in poi il tema di fondo non più dimenticato, anzi sempre ripreso sviluppato arricchito e precisato. Nell'Introduzione all'esistenzialismo, che è del 1942, il concetto chiave per comprendere il significato e l'esito della conversione dell'esistenzialismo in una filosofia positiva è quello della possibilità trascendentale, che permette di considerare l'esistenza in una continua tensione problematica con l'essere senza farla decadere nella impossibilità o nella necessità. Invitato nel 1950 dall'Università di Padova a esporre la sua prospettiva filosofica, Abbagnano, distinguendo il possibile, che solo può realizzarsi, dal necessario che è già realizzato e dall'impossibile che non si può realizzare, richiamava l'attenzione sul fatto che, realizzandosi, il possibile resta possibile solo se si rapporta alla sua possibilità costituiva, il che avviene quando il realizzarsi di una possibilità non rappresenta l'estinguersi della possibilità ma "il consolidarsi e il manifestarsi autentico della possibilità stessa e il suo ripresentarsi incessante come possibilità".2 In una conferenza del 1951, ritornando sul problema, lo formulava sinteticamente in questo modo: "Il criterio per giudicare i possibili, e per scegliere a ragion veduta tra di essi, è lo stesso possibile".3 Infine nel saggio già citato, Morte e trasfigurazione dell'esistenzialismo del 1955, ribadiva il concetto che per mostrare l'alternativa positiva dell'esistenzialismo l'unica via era quella di assumere la categoria nell'intero suo significato e nel farne un uso coerente, e spiegava: "Per 'uso coerente' intendo un uso che non trasformi surrettiziamente la categoria in una categoria diversa e opposta... E per "intero significato" intendo quello che comprende le due facce del possibile ed evita di sacrificare l'una a vantaggio dell'altra. Difatti, la prospettiva aperta da una possibilità non è né la realizzazione infallibile né l'impossibilità radicale, ma piuttosto una ricerca diretta a stabilire i limiti e le condizioni della possibilità stessa e quindi il grado di garanzia relativa o parziale che essa può offrire".4

5. Dopo la definizione di una certa interpretazione dell'esistenzialismo attraverso una polemica interna agli altri esistenzialismi, interpretazione che aveva dato origine a una nuova forma di esistenzialismo che tanto per intenderci chiameremo "esistenzialismo aperto", il passo ulteriore, quasi obbligato, era quello del confronto per opposizione o per affinità con le altre posizioni di pensiero che tenevano il campo o lo andavano rapidamente conquistando. Questo confronto fu facilitato, anzi reso necessario, dalla rottura degli argini avvenuta alla fine della guerra e col ritorno al libero dibattito delle idee e alla normale comunicazione intellettuale tra paese e paese. Nel momento stesso in cui, attraverso i due libri fondamentali del 1939 e del 1942, Abbagnano aveva caratterizzato il proprio atteggiamento filosofico, aveva pure posto le basi per una ricognizione e una dichiarazione delle convergenze e delle divergenze.
La convergenza più feconda fu certamente quella che lo avvicinò alle correnti neo-empiristiche, con particolare simpatia e consenso allo strumentalismo di John Dewey. Ma fu una convergenza, non, come altri avrebbe suggerito, una conversione. Nei confronti del neo-empirismo e dello strumentalismo si trattò di prender atto e di chiarire che l'esistenzialismo positivo si muoveva nello stesso orizzonte culturale, condivideva la stessa concezione dell'uomo, era disposto a condurre fianco a fianco con esso una stessa battaglia fìlosofica perché aveva su per giù gli stessi nemici. Decisivo è a questo proposito quel che si legge nell'articolo, con un titolo che è un programma, Verso un nuovo illuminismo: John Dewey, pubblicato alla fine del 1948 sulla "Rivista di filosofìa". Dopo aver indicato nello strumentalismo di Dewey, nel neo-positivismo e nell'esistenzialismo, le tre filosofie militanti di quegli anni, Abbagnano scriveva che queste tre correnti, pur nella loro diversità, partivano da un comune presupposto che era il carattere problematico dell'uomo e del mondo: "Per queste correnti - spiegava - il mito di un ordine stabile, di una ragione assoluta che lo domini e lo diriga, di un destino felice e progressivo che conduca l'uomo infallibilmente alle sue ultime mete, è caduto infranto. Il mondo è stato riconosciuto nella sua instabilità e precarietà fondamentale; la ragione è stata ricondotta al problema della ragione cioè delle sue strutture e categorie, che perciò hanno perduto ogni carattere preformato e necessario; l'uomo è stato riconosciuto come il problema dei problemi, come il punto critico in cui la problematicità dell'universo raggiunge una possibilità di soluzione e di scelta".5 Alla fine dell'articolo, ricapitolando i punti salienti del pensiero di Dewey, parlava, alludendo alla filosofia europea di cui si sentiva portatore, di una "comune ispirazione", e la faceva consistere nell' "esigenza di una filosofia umana, attraverso la quale l'uomo si riconosca come uomo, e non come angelo né bruta materia, e progetti nella storia la sua vita avvenire, radicandosi nel mondo che è la sua dimora".6 La determinazione dei presupposti e dei fini comuni non impediva che ciascuno facesse la propria strada, seguendo propri criteri di convalidazione e di giustificazione dell'atteggiamento assunto. Abbagnano non solo non rinunciò all'esistenzialismo ma cercò di mostrare in saggi vari scritti in diverse occasioni, da Esistenzialismo positivo del 1948 a Morte e trasfigurazione dell'esistenzialismo del 1955, la piena aderenza dell'esistenzialismo reinterpretato al programma illuministico, anzi di far vedere che se il nuovo illuminismo si distingueva dall'antico ciò dipendeva dal fatto che la filosofia europea era passata attraverso la critica esistenzialistica della ragione e la consapevolezza che solo l'esistenzialismo aveva raggiunto con estrema lucidità della finitezza invalicabile dell'esistenza umana. Nello stesso anno in cui annuncia il programma neo-illuministico, pubblica due saggi tra i più pregnanti sulla natura e sui compiti dell'esistenzialismo (Che cosa è l'esistenzialismo? e L'esistenzialismo è una filosofia positiva).
L'esistenzialismo non è soltanto consapevolezza della finitudine umana ma anche impegno in essa, cioè riconoscimento e accettazione dei propri limiti e del proprio compito attraverso l'approfondimento dei temi fondamentali della trascendenza, della consistenza e del destino. La filosofia per l'esistenzialismo non è mai sapere totale ma sempre sapere problematico. Come filosofia della possibilità trascendentale è una rivendicazione di libertà. Contro le filosofie divineggianti, la risposta dell'esistenzialista è la risposta che affida all'uomo, soltanto all'uomo, la scelta, e quindi la responsabilità e anche il rischio del proprio cammino in questo mondo.
In una limpida conferenza del 1951 il mondo è paragonato a un gran libro scritto in caratteri non sempre chiari e accessibili. Da un lato, vi sono filosofi che pretendono di averne trovato la chiave e presentano la loro lettura come la sola vera; dall'altro, vi sono filosofi che, considerando il libro del tutto incomprensibile, ritengono tutte le letture egualmente false. L'esistenzialista non appartiene né alla schiera dei primi né a quella dei secondi: per lui questa lettura non sarà mai definitivamente vera né definitivamente falsa, ma dovrà essere continuamente controllata per essere confermata o smentita. Certo, la via dell'esistenzialista è meno comoda, ma è insieme più ragionevole, lontana tanto dall'immobilità del dommatico quanto dalla inconcludenza dello scettico.
C'è solo da domandarsi se questa raffigurazione del filosofo cui il gran libro del mondo non è nè tutto aperto né tutto chiuso ma solo dischiuso, non avrebbe potuto servire ugualmente bene a caratterizzare il filosofo empirista. Forse già a questo punto la convergenza tra esistenzialismo ed empirismo aveva dato luogo ad una sovrapposizione. Nel saggio, sotto molti aspetti riassuntivo e conclusivo, Morte e trasfigurazione dell'esistenzialismo, che è del 1955, lo lascerà intendere abbastanza chiaramente, là dove, dopo aver elogiato la funzione liberatrice dell'esistenzialismo, constaterà che l'esistenzialismo, esaurito il suo compito critico, "si evolve verso un empirismo radicale".7 La convergenza allora sarà diventata una confluenza.

6. Questa convergenza-confluenza non è stata senza un qualche effetto sullo stile e sul lavoro filosofici di Abbagnano in questi ultimi vent'anni. Sono cadute alcune parole o formule suggestive del primo esistenzialismo, come destino, fedeltà, scelta appassionata, autenticità e dispersione; il linguaggio è diventato sempre più scabro, semplice, chiaro, severo e pur non accademico, diretto alle cose, essenziale, raro esempio di astinenza, di misura, di lealtà verso il lettore. L'esistenzialismo ha perduto il suo primitivo carattere difensivo, proprio di una filosofia che è costretta a vivere in una cittadella accerchiata, e si è trasformato in un atteggiamento espansivo, volto all'investigazione e all'esplorazione di campi d'esperienza sempre nuovi. La sfera dei problemi e degli interessi si è venuta allargando, soprattutto in due direzioni: le scienze e la società.
Per quel che riguarda il problema della scienza, è stata particolarmente feconda la partecipazione di Abbagnano al Centro di studi metodologici che sorse in Torino subito dopo la guerra per iniziativa di Ludovico Geymonat e di alcuni suoi amici. Non vorrei sbagliare, ma in quegli anni il primo scritto metodologico di Abbagnano è la nota presentata come argomento di discussione al Centro nel dicembre del 1947, intitolata Nota sui termini scienza, conoscenza, mondo, pubblicata sulla "Rivista di filosofia" nel primo fascicolo del 1948, costituì anche l'inizio della sua collaborazione a questa rivista. Seguì nel 1949 la conferenza sulla Metodologia delle scienze nella filosofia contemporanea, che fece da introduzione a una serie di lezioni dei membri del Centro, poi pubblicate nel volume Saggi di critica delle scienze (Torino, De Silva, 1950). Le questioni di metodo, e in genere di fìlosofia delle scienze, non cessarono più dal costituire uno dei poli del suo interesse per i problemi del mondo contemporaneo. Altri saggi sullo stesso argomento sono raccolti nel volume Possibilità e libertà, del 1956. La impresa più importante cui Abbagnano ha dato mano in questo campo è stata il promovimento e la coordinazione dell'imponente Storia delle scienze, pubblicata dall'UTET nel 1962, di cui egli stesso ha scritto il capitolo introduttivo. Il suo atteggiamento verso la scienza è sempre stato alieno tanto dalla esaltazione incondizionata del positivismo acritico quanto dalle recriminazioni degli spiritualisti: egli si pone di fronte alla scienza in atteggiamento di "ragionevole fiducia". Considerare la scienza nelle sue "giuste proporzioni" vuol dire vederla come "un tentativo dell'uomo, sempre rinnovato e mai totalmente riuscito, di fare del mondo la casa propria: una casa in cui egli possa vivere a suo agio e in pace".8 L'interesse per i problemi generali della metodologia delle scienze andò pari passo con l'interesse per una scienza particolare, la sociologia. In questo campo l'opera di Abbagnano è stata quella di promotore e insieme di guida. E' inutile rinnovare le lamentele sullo stato di abbandono in cui si era venuta a trovare la sociologia in Italia dopo la guerra. Per rimetterla in onore occorreva fare un lavoro di intelligente documentazione, di netta separazione tra le scorie e i germi fecondi, di chiarimento concettuale e di delimitazione dei compiti. A quest'opera Abbagnano si accinse nel quinquennio 1950-1955, negli anni in cui cominciò a rifiorire in Italia, tra contrasti, dissensi, e le prime ingenue infatuazioni, il gusto per la ricerca sociologica. Fondò nel 1951, insieme con un giovane allievo, Franco Ferrarotti, la prima rivista italiana di sociologia dopo il lungo letargo, i "Quaderni di sociologia", e vi pubblicò regolarmente una serie di saggi, oggi raccolti in volume (Problemi di sociologia, 1956), volti a elaborare i canoni metodologici della sociologia come scienza empirica e a fissare, attraverso un'analisi concettuale delle nozioni fondamentali di cui si serve il sociologo, una teoria generale della società. Il maggiore pericolo in cui incorre una scienza nuova è quello del dilettantismo e della ripetizione meccanica e stereotipata di modelli già fatti: la funzione di Abbagnano in questo campo è stata quella di un invito alla serietà e al rigore.
Come gli studi di metodologia delle scienze hanno certamente esercitato un'influenza sul modo con cui Abbagnano si è accostato in questi anni al tradizionale problema della conoscenza, cosi gli studi sociologici gli hanno offerto nuovi stimoli e nuovi strumenti per affrontare in modo nuovo l'altrettanto tradizionale problema dell'etica. Nello sviluppo della teoria gnoseologica di Abbagnano segna una tappa importante l'articolo del 1952, L'appello della ragione e le tecniche della ragione. Per quel che riguarda il problema morale, basterà ricordare che sin dal saggio del 1955, Sul metodo della filosofia, accennando alla fine, a mo' di esempio di un problema filosofico, al problema morale, aggiungeva incidentalmente che non aveva scelto l'esempio a caso perchè si trovava "impegnato in una ricerca del genere".9 Chi segue da vicino e non soltanto attraverso la carta stampata il suo lavoro di questi ultimi anni sa che il problema morale e quello giuridico sono attualmente l'oggetto principale delle sue ricerche e quanto strettamente queste ricerche siano connesse allo studio della società.

7. Non vi è movimento di convergenza tra due correnti di pensiero senza che vi corrisponda in senso opposto un movimento di divergenza e di differenziazione dal comune avversario. Senza dubbio una delle ragioni della convergenza dell'esistenzialismo positivo con il neo-empirismo fu che entrambi in quegli anni di ricostruzione si trovarono, nel grande conflitto delle filosofie e delle ideologie, dalla stessa parte. Uno dei risultati della convergenza fu per l'esistenzialismo positivo la individuazione più netta e più diretta dell'avversario: sino allora l'esistenzialismo positivo era stato troppo impegnato in una polemica interna allo stesso esistenzialismo per occuparsi degli avversari esterni. La polemica esterna con l'idealismo, con lo spiritualismo, con la metafisica tradizionale, era implicita: ma non era mai diventata un tema dominante. Solo con l'avvicinamento al neo-empirismo e con l'inserimento nell'orizzonte neo-illuministico, l'esistenzialismo positivo ritrovò il suo vero ed unico bersaglio nell'avversario tradizionale dell'illuminismo, il romanticismo. E' difficile intendere la personalità filosofica di Abbagnano negli ultimi anni e la parte rappresentata nella filosofia italiana senza rendersi conto della sua battaglia antiromantica. Il romanticismo è stato finalmente il riconosciuto luogo d'incontro di tutte le negazioni e di tutte le insofferenza. Sul piano del pensiero militante, il proposito più tenacemente perseguito da Abbagnano da dieci anni a questa parte è stato quello di liberare la filosofia italiana dal peso della tradizione romantica la cui ultima manifestazione erano stati i due fratelli nemici, il positivismo ottocentesco e l'idealismo contemporaneo.
Nel lavoro storiografico di Abbagnano uno dei punti nodali è la interpretazione e la critica del romanticismo inteso, per lo meno nel suo aspetto filosofico, come l'idea di una ragione infinita che si manifesta necessariamente nel mondo finito o, che è lo stesso, l'idea di un finito che si realizza necessariamente nell'infinito, onde vengono i caratteri, comuni tanto all'idealismo tedesco quanto al positivismo francese, dell'ottimismo etico, del provvidenzialismo storico, della fede nell'inevitabilità del progresso. In sintesi, allo stesso modo che la categoria fondamentale di tutte le filosofie d'ispirazione illuministica, ivi compreso l'esistenzialismo, è la possibilità, la categoria fondamentale di ogni manifestazione della filosofia romantica è la necessità. Mentre la concezione necessitaristica della realtà accomuna Hegel e Comte, quella possibilistica riunisce, al di là del tempo, per quanto possa sembrare paradossale, Heidegger a Locke. Necessità vuol dire sicurezza, garanzia assoluta nella stabilità, riconciliazione definitiva e appagante col mondo ostile; possibilità invece significa insicurezza, rischio, coscienza di muoversi in un mondo ostile col quale ogni riconciliazione è sempre provvisoria. In due pagine del saggio del 1955 più volte citato, la contrapposizione tra romanticismo ed esistenzialismo è svolta incisivamente attraverso una serie di contrari, infinito-finito, ordine-assenza di ordine, incondizionatezza-condizionamento, progresso-mancanza di progresso, intimismo spiritualistico-mondanità, insignificanza-significanza degli aspetti negativi dell'esperienza umana come il dolore, la malattia, la morte".10
Il filosofo si deve porre oggi la domanda: quale delle due concezioni corrisponde meglio alla situazione dell'uomo dopo una crisi mortale di tutti i valori, che ha avuto per teatro la seconda guerra mondiale? Terminando l'esposizione della propria "prospettiva filosofica", Abbagnano risponde pacatamente ma con fermezza a questa domanda: la sicurezza proclamata dalle filosofie romantiche non ha servito a nulla; non basta credere nella sicurezza assoluta perché tale sicurezza ci sia; anzi il miglior modo per mettere in pericolo i valori fondamentali della vita è quello di ritenerli assolutamente garantiti. Il primo dovere del filosofo è quello di ammonire: Estote vigilantes. Nello sforzo di liberazione da ogni residuo di spiritualità romantica nasce la figura del filosofo nuovo, che non è più un profeta, un annunciatore di verità assolute, un portatore di messaggi consolatori, ma è più modestamente e più utilmente un uomo che parla ad altri uomini e cerca di chiarire di risolvere con essi le difficoltà che un mondo non benigno frappone. In questa raffigurazione del filosofo nuovo la voce di Abbagnano è diventata sempre più intensa e sicura, vorrei aggiungere, sempre più persuasiva. E' la voce di una saggezza temperata, senza ambizioni smodate, senza vanità fanciullesche, senza pose profetiche o peggio professorali, che si pone i problemi dell'uomo nel mondo, sapienza terrestre non divina, e cerca di rendersi utile, affinando i soli strumenti di cui l'uomo dispone per dominare la natura e regolare pacificamente la vita sociale, facendo progetti realizzabili, indicando i fini comuni. Non si tratta della filosofia di colui che ha una grande quantità d'oro e va dicendo che l'oro è la sola ricchezza e lui è il solo ricco, ma di colui che si mescola con gli altri e usa dell'oro per facilitare gli scambi e migliorare le condizioni della società in cui vive.11

8. A questa raffigurazione del filosofo è connessa la concezione che Abbagnano ha ripetutamente espressa e praticata della storia della filosofia. In un ritratto come questo dovevo insistere sulla concezione filosofica. Ma questa insistenza non deve far dimenticare il contributo dato da Abbagnano alla storiografia filosofica con la monumentale Storia della filosofia, uscita in tre volumi negli anni immediatamente dopo la guerra (1946-1950) e ora uscita in una nuova edizione notevolmente ampliata. Per molti Abbagnano è soprattutto l'autore di questa storia che si trova in tutti gli scaffali, anche in quelli meno provveduti, degli studenti di filosofia. Ma non a tutti è chiara la connessione tra il filosofo e lo storico. Orbene il chiarimento di questa connessione richiede il discorso fatto sin qui: la concezione che Abbagnano ha della storia della filosofia è antitetica alla concezione romantica, di cui l'espressione più alta è stata la storia della filosofia di Hegel. Ciò significa che per Abbagnano i sistemi non si svolgono l'uno dall'altro secondo una interiore necessità che è compito del filosofo-storico di scoprire, e neppure che sono di volta in volta determinati dalle condizioni storico-sociali di cui il filosofo sarebbe la coscienza riflessa: i sistemi filosofici sono la espressione della personalità del filosofo nella sua singolarità e nella comunicazione con gli altri; la storia della filosofia non è a sua volta un sistema in fìeri, ma un continuo dialogo tra sistemi diversi. Il compito dello storico è quello di mostrare non la interna concatenazione ma la solidarietà degli sforzi "che mirano a rendere chiara per quanto è possibile la condizione e il destino dell'uomo".12 Da questo punto di vista non ha senso parlare di progresso nello svolgimento della filosofia come se ne parla nelle scienze: lo storico della filosofia si trova di fronte non verità oggettive ma persone dialoganti intorno al loro destino, "e le dottrine non sono che espressioni di questo dialogare ininterrotto, domande e risposte che talora si richiamano e si corrispondono attraverso i secoli".13 Solo uno studioso, come Nicola Abbagnano, che aveva acquistato tanta familiarità con le dottrine classiche e moderne dei fìlosofi poteva concepire il grandioso disegno, apparentemente persin temerario, di scrivere da solo pagina dietro pagina, voce dopo voce, un dizionario fìlosofico. Ma Abbagnano è un uomo tenace, che sa imporsi una disciplina e quel che è più sa mantenerla. Il lavoro per il dizionario credo sia stata la fatica più improba della sua vita, un lavoro assorbente ed esclusivo come ben sanno gli amici che lo frequentavano in quel tempo. Sono occorsi sette anni; ma alla fine nel 1961 il dizionario con le sue mille fitte pagine a due colonne è uscito. E' stata una grossa novità, anche per i più vicini che avevano seguito il procedere dell'opera giorno per giorno. In quelle mille pagine è concentrato in definizioni ed esempi il pensiero fìlosofico di duemila anni, da Platone a Wittgenstein. Ogni voce, anche la più piccola, è un invito e un aiuto a capire la filosofia; le voci più complesse, come conoscenza, Dio, essere, esperienza, filosofia, natura, possibile, religione, storia, tempo, volontà, sono trattatelli in nuce, piccole somme di una dottrina tanto bene assimilata da essere diventata essenziale. Anche questa del dizionario è stata per Abbagnano una battaglia illuministica. Si legge sin dalle prime righe della Prefazione che l'opera ubbidisce prima di tutto all'esigenza della chiarezza, che è "condizione essenziale affinché la filosofia possa esercitare una qualsiasi funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini".14 Il compito della filosofia è troppo spesso reso vano dalla calcolata o insipiente astruseria sotto la quale si celano la vacuità della mente, la confusione delle idee, e quel che è peggio, la boria professorale, e si perpetua un'ingannevole sapienza fatta di costruzioni di carte. Per chi voglia entrare nel recinto della filosofia questo dizionario è un vestibolo quasi obbligato. Oltretutto, è un'opera che corrisponde con particolare tempestività al bisogno filosofico di questi anni: non ci occorrono sistemi, tanti sistemi e sistemini, in gara fra loro, quanti sono i professori che tengono cattedra. Abbiamo bisogno di imparare a ragionare, a usare nel modo più efficace possibile le risorse limitate della nostra ragione, per migliorare le condizioni della nostra esistenza nel mondo, nell'unico mondo in cui sembra che siamo destinati o condannati a vivere (ché se poi ce ne fosse un altro, la ragione, questa ragione fallibile, non dovrebbe essere di grande utilità). Considero questo dizionario come un salutare antidoto alla passione sistematica. A un giornalista che mi chiedeva un giorno in un'intervista quale secondo me fosse il libro più importante di filosofia uscito in questi ultimi anni in Italia, risposi: "Il Dizionario di Filosofia di Abbagnano". "Come - mi domandò stupefatto - un dizionario?" Cercai di spiegargli che in un periodo di confusione delle lingue bisogna cominciare dal dizionario e che comunque, per reimparare a parlarsi, è meglio un buon dizionario che un cattivo poema.

9. Dicevo un giorno all'amico Abbagnano che le nostre generazioni, la sua e la mia, sono passate tempestosamente attraverso ere filosofiche diverse. C'era il pericolo di restare continuamente in preda ai flutti, magari di arenarsi o di andare a sbattere su qualche scoglio. Credo che a conti fatti possiamo dire di non aver perduto la bussola e di aver trovato la nostra direzione. E' una direzione che non promette una meta meravigliosa e definitiva ma solo piccole tappe per riposare un po' prima di ripartire. Ci è di conforto il non essere soli, anche se avremmo sperato, dileguati i fumi dell'ultima ubriacatura metafisica, di trovarci in compagnia più numerosa. L'importante è mantenere la posizione e non tornare indietro. Non è mancata nella storia della filosofia italiana qualche stagione illuministica ma è stata di solito di breve durata. Forse oggi nella rapida trasformazione della società e della scuola italiane sono poste finalmente le condizioni per una stagione più lunga e, speriamo, più feconda. Siamo arrivati di lontano, dicevo, e siamo arrivati anche da vie diverse. Quando Abbagnano venne a insegnare all'università di Torino, nel 1936, io ero ai primi passi. Mi ero liberato da una fiammata attualistica attraverso lo studio della fenomenologia, e mi stavo ormai dedicando a ricerche molto circoscritte di metodologia giuridica. Abbagnano veniva dalla città di Croce ma non era mai stato crociano: del resto allora la cittadella del crocianesimo militante era assai più Torino che Napoli: si pensi a studiosi, insigni nel loro campo, come Mario Fubini e Federico Chabod. Proveniente dalla scuola di Aliotta, che, come egli stesso ha scritto recentemente, aveva "inalberato" le insegne dello sperimentalismo e del relativismo nel momento in cui l'idealismo assumeva il rango di filosofia ufficiale o semiufficiale15 Abbagnano rappresentava una voce nuova, un'esperienza filosofica diversa da quella schiettamente storicistica che alimentava la parte più viva della nostra università, interessi per le correnti filosofiche anglosassoni, estranei a quelli della cultura torinese d'allora. Per quanto vivesse appartato seguendo una sua naturale vocazione e il costume di una città tanto chiusa da sembrare inospitale, lo incontrai credo nei primi tempi del suo soggiorno torinese: i nostri rapporti furono subito cordiali e presto amichevoli. Renato Treves ed io lo presentammo al nostro maestro, Gioele Solari, che aveva il nome di un profeta e l'aspetto di un patriarca, e lo avvicinammo cosi alla parte che ancor oggi credo più nobile della tradizione culturale torinese di quegli anni di attesa. A poco a poco si allargò la cerchia degli amici comuni, via via che egli si inseriva nella vita di una città, che trovava sempre più corrispondente alle sue esigenze di vita ordinata metodica riservata. Tra questi uno solo vorrei ricordare, il più sventurato, quegli il cui volto pallido e corrucciato non possiamo richiamare alla memoria senza un sussulto, senza riproporci il problema dei problemi: "A che scopo?". Parlo di Cesare Pavese.
Per quanto arrivati da vie diverse, da tempo percorriamo la stessa strada. Dal 1952 dirigiamo insieme la "Rivista di filosofia" che dovrebbe essere, se non presumiamo troppo, l'espressione e il luogo d'incontro di tutti coloro che credono nella funzione rischiaratrice della filosofia. Nel programma concordato ma scritto da Abbagnano era detto: "Noi vogliamo combattere il pericolo (almeno in Italia, reale), che la filosofia diventi un insincero esercizio verbale e un pretenzioso strumento di dominio mentale". Non ci è dato conoscere quanto sarà lungo il cammino dinnanzi a noi. Oggi il miglior augurio che ci possiamo fare è di restar fedeli al programma del 1952 per tutto il tempo, lungo o breve, che saremo sul cammino, anzi di arricchirlo, di perfezionarlo, di allargarlo a nuovi collaboratori. Non ci facciamo troppe illusioni; ma il non illuderci (e il non illudere) è, anche questa, una buona regola della nostra filosofia.

NORBERTO BOBBIO

Questo volume deriva da una iniziativa dell'Amministrazione del Comune di Salerno, che il 14 Settembre 1965 deliberò di onorare la figura e l'opera del filosofo salernitano in occasione della ricorrenza di un quarantennio di attività didattica e scientifica del medesimo. Il 4 Dicembre 1965, nel Salone dei Marmi del Palazzo di Città di Salerno, ebbe luogo la manifestazione durante la quale venne offerta ad Abbagnano una medaglia d'oro del Comune. Dopo il saluto del Sindaco Alfonso Menna, Norberto Bobbio aprì la manifestazione con un "Discorso su Nicola Abbagnano", al quale seguì la risposta di quest'ultimo. Questi tre interventi appaiono nel volume, che venne stampato in 2000 copie. 150 di queste, numerate e riportanti in copertina la scritta "Omaggio del Comune di Salerno a Nicola Abbagnano", vennero firmate dall'Autore.

In: N. Abbagnano, Scritti scelti (a cura di G. De Crescenzo e P. Laveglia), Taylor, Torino, 1967, pp. 9-38.